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Casa Museo Goffredo Parise

Andiamo alla Casa Museo Goffredo Parise di Ponte di Piave (Treviso) con la guida splendida che ne offre Consuelo Valenzuela nella sua “Guida alle più belle case di artisti in Italia”, edito da Stampa Alternativa, che ringraziamo unitamente all’autrice e alla Casa per l’uso delle immagini.




Nel luglio del 1984 Goffredo Parise (1929-1986) scriveva all’amico Alcide Paolini: “Sono con molta soddisfazione nella nuov casa, tra due giardini, bella, ampia, la prima vera casa o home della mia vita. Sono contento”. La casa nella quale si trovava era quella di Ponte di Piave, dove si era dovuto trasferire a causa della sua malattia che gli imponeva delle frequenti visite in ospedale per le sedute di dialisi alle quali doveva sottoporsi.

Il soggiorno della casa di Parise
Il soggiorno della casa di Parise

Era stato costretto a lasciare la famosa casa di Salgareda, dove aveva scritto la sua opera più nota “I Sillabari”, sul greto del fiume Piave da lui particolarmente amato, per una casa più comoda e vicina all’ospedale di Treviso. Aveva detto: “Le rive del Piave, specialmente a nord di Ponte di Piave, sono di una bellezza incantevole. Flora e fauna vi abbondano per i loro colori e i loro canti”.

L'esterno della casa di Parise
L’esterno della casa di Parise

Sullo stile – volutamente semplice e inimitabile – dei racconti che fanno parte dei Sillabari e sulla loro genesi, l’amico scrittore Raffaele La Capria riporta nel libro “Caro Goffredo” lo stralcio di una lettera di Parise che in quegli anni si sente insofferente nei confronti del linguaggio intriso di politica: “Sentivo una gran necessità di parole, di parole semplici. Un giorno, nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio e leggo: l’erba è verde. Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua semplicità, ma anche nella sua logica. C’era la vita in quell’erba è verde, l’essenzialità della vita e anche della poesia”.




Durante la sua esistenza inquieta Parise aveva vissuto in molte case, in tanti posti diversi. “Forse quaranta” aveva detto una volta. E il poeta Andrea Zanzotto lo aveva definito come “uno che non può soffermarsi in nessun luogo”. Da Vicenza, sua città natale che però gli era andata subito stretta anche perché la sua situazione di figlio illegittimo gli aveva procurato non pochi problemi nella società vicentina di allora, chiusa e bigotta, durante la prima giovinezza, aveva poi abitato a Venezia, Roma, Milano e Treviso.

L'ingresso della casa di Parise
L’ingresso della casa di Parise

Il lavoro di corrispondente estero per il “Corriere della Sera” lo aveva portato a girare il mondo in lungo e largo, visitando le zone calde in guerra per circa un trentennio quando finalmente, dopo lunghi vagabondaggi, era approdato al suo buen retiro di Salgareda e poi a Ponte di Piave, nel suo Veneto natìo.

Rimase subito folgorato dalla bellezza dei luoghi. In un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” dell’1 luglio 1984 con un titolo che divenne celebre “Veneto ‘barbaro’ di muschi e nebbie” descrisse la sua casa di Salgareda: “Avvolto in un ampio verde disordinato, tra viti nane e alberi da frutto, alti pioppi e salici c’era un relitto di casa, una sorta di fienile quasi invisibile, coperto da un grosso gelso storto che gli stava di fronte… Decisi che avrei comprato quel fienile… Così passarono giorni e anni. Ero un uomo solo che viveva solo, felice e infelice come sempre capita. Stavo a Roma, ma sempre più spesso in quel luogo incantato dove l’ozio era popolato di compagnia animale, giorno e notte”.




La casa, così come l’ha lasciata, è un vecchio casolare di campagna diviso in due appartamenti. Al piano terreno vi è un ingresso con una parete a liste a specchio dove fanno mostra di sé diversi oggetti esotici, tra cui una zanna di elefante, una scala a chiocciola rossa, un appendiabiti rustico e una scultura in legno di Mario Ceroli che ritrae Parise. Nel grande soggiorno reso luminoso da due grandi vetrate pendono dal soffitto due globi cinesi in carta di riso sopra le poltrone e il tavolino in vimini bianco.

Nello studio lo scrittoio è una semplice tavola poggiata su due cavalletti. Vi sono in bella mostra la sua macchina da scrivere, l’Olivetti lettera 32, le boccette d’inchiostro della stilografica, gli sci con gli scarponi per avventurarsi in montagna.




Al piano superiore, oggi diventato sede della Biblioteca comunale, si trovava l’atelier di Giosetta Fioroni, artista di fama internazionale e compagna di Parise che ritrasse più volte. La presenza di numerosi quadri di arte contemporanea di artisti amici, tra cui Schifano, Ontani, Fioroni, Franco Angeli e de Pisis, disseminati in tutta la casa, attesta l’amore di Parise per la pittura moderna.

Raccontò infatti che durante gli anni del liceo aveva accarezzato per un breve periodo l’idea di diventare un pittore. Delle sue opere di allora diceva: “La mia era una pittura lirico-narrativa, alla Chagall, ma vicentina. Poi un giorno andai a Venezia, alla Biennale e vidi i veri quadri di Chagall, e capii subito che era meglio lasciar perdere con i pennelli”.

Sono cinque i quadri dipinti da Parise che si trovano nella casa-museo di Ponte di Piave; tutti dipinti tra il 1946 e i 1948, prima di visitare la mostra di Chagall e decidere di abbandonare la pittura.




Quando Goffredo Parise muore, il 31 agosto 1986, lascia delle precise disposizioni testamentarie riguardanti la destinazione della sua casa: “Lascio la mia casa di Ponte di Piave, sita in via Verdi n. 1 al Comune di Ponte di Piave alle seguenti condizioni: a) Il Comune di Ponte di Piave dovrà farne una casa di cultura intestata a mio nome e si caricherà di tutti gli oneri inerenti la manutenzione.

b) La casa dovrà essere custodita e avere una targa così concepita: “Casa di cultura Goffredo Parise” per studi. Poiché lascio la casa con tutto quanto contiene (mobili, libri, quadri, eccetera) essa, a giudizio del Comune potrà essere aperta ed eventualmente ospitare studiosi delle mie opere.

c) Il Comune approva che le mie ceneri siano sepolte sotto la statua che sta nel giardino dove sarà posta una piccola lapide in marmo”.




Morì alle 9 di mattina su un letto dell’ospedale di Ca’ Foncello a Treviso. Non riusciva più a respirare né a muoversi; gli infermieri cercarono di cambiargli posizione, ma Parise li fermò, dicendo “Non ne vale la pena” e spirò. Le sue ceneri furono seppellite nel giardino della casa di Ponte di Piave, sotto una copia della Mademoiselle Pogany di Brancusi.

CASA-MUSEO GOFFREDO PARISE
Via Verdi 1,
31047 Ponte di Piave (TV)
Informazioni, Tel. 0422-759995
web: http://www.goffredoparise.it
mail: info@goffredoparise.it

(c) Consuelo Valenzuela, “Guida alle più belle case di artisti in Italia”, Stampa Alternativa, 2016.

Tutte le fotografie sono state gentilmente concesse dalla Biblioteca di Ponte di Piave – Casa di Cultura Goffredo Parise.




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USA on the road

USA in the road. Esce “Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani” di Giorgio Vasta e Ramak Fazel (Humboldt-Quodlibet).




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flânerie e viaggetti

Fiori (SPQR)

Diciamo che Roma non sarà Amsterdam ma un suo “Mercato all’Ingrosso dei Fiori e delle piante ornamentali (del Comune di Roma)” (questa la dicitura official) ce l’ha pure lei. Ufficiale, appunto, e comunale. E’ aperto agli operatori ma il martedì fa la sua eccezione. Ve la mostriamo.




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racconti

La scuola al tramonto

Questo raccontino è uscito su www.accattone.org. Lo ripubblico così come uscito.


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mangiare/bere

Ruyi – Cola di Rienzo

Da Ruyi, il cinese di via Valadier.




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recensioni

Il Signor Cevdet

Il primo romanzo del premio Nobel turco Orhan Pamuk, “Il signor Cevdet e i suoi figli”, una lettura.




E’ il primo romanzo del premio Nobel turco Orhan Pamuk, “Il signor Cevdet e i suoi figli” (traduzione di Barbara La Rosa Salim, revisione di Şemsa Gezgin, Einaudi, 2011, pp. 683, € 24,00) e la nostra sensazione è che il monumento unitario formato dalle sue opere si sia arricchito delle sue fondamenta.

Il tema di Pamuk è, da sempre, la dialettica tra Oriente e Occidente nel suo Paese, una Turchia che ha una grande estensione anatolica, ma ha il suo centro a Istanbul, nell’elegante quartiere di Nişantaşı, dove sorge il palazzo Pamuk, in una stanza del quale c’è un tavolo su cui l’autore, con carta e penna, ha cominciato a creare il suo mondo letterario poco più che ventenne, dopo aver abbandonato il sogno di diventare pittore.

In “Istanbul” (2003) Pamuk avrebbe raccontato la sua infanzia e la sua giovinezza fino al 1975. Dal 1974 al 1978 si era chiuso nella sua stanza a scrivere “Il signor Cevdet e i suoi figli”, pubblicato poi nel 1982. Per paradosso, possiamo dire che il romanzo giovanile comincia dove finisce Istanbul. Epopea dell’Est e dell’Ovest vissuta in seno a tre generazioni di una famiglia borghese esemplata su quella dell’autore, “Il signor Cevdet e i suoi figli” si apre con il 1905, anno che prelude all’ascesa politica dei
Giovani Turchi e alla fine dell’Impero ottomano.




Prosegue nel periodo intorno al 1938, in cui si festeggia il quindicennale della Repubblica fondata nel 1923, muore Atatürk e si addensano le ombre del secondo conflitto mondiale, per poi concludersi nel 1970, poco prima del colpo di stato militare che ferisce sia le forze di sinistra, sia gli islamisti.

Le tre generazioni della famiglia di Cevdet, ricco commerciante musulmano (in un epoca in cui il commercio di Istanbul era in mano ad armeni, greci ed ebrei) abile negli affari ed estraneo alla politica, si succedono, nonostante la mole del romanzo, con grande velocità, come fotografate ciascuna a trent’anni di distanza.

Nel capitolo “La notte e la vita” (I, 12), ad esempio, il trentasettenne Cevdet si chiede se sarà felice con la sua futura sposa Nigân, timida figlia di un pascià fedele al sultano, ma grande bevitore ed economicamente quasi al collasso. Poche pagine dopo Cevdet è già nonno, un po’ svanito, e i figli Osman e Refik gli rubano la scena.

Al pacato Cevdet, che, per essersi aggiudicato in esclusiva la fornitura di lampade al Comune, si guadagnerà il cognome di Işıkçı (‘L’Elettricista’, in traduzione, ma sarebbe più chiaro ‘L’Illuminatore’), si oppone il fratello Nusret, impetuoso sostenitore dell’illuminismo (tutt’altra luce) e della rivoluzione francese; al solido Osman si contrappone Refik, perennemente insoddisfatto, cui si affiancano gli amici con i quali ha studiato ingegneria all’università: Ömer, che si sente un conquistatore come il balzacchiano Rastignac, e Muhittin, che invece è malinconico e brutto, ama
Baudelaire e vuole diventare un grande poeta entro i trent’anni, o altrimenti suicidarsi.




Ziya, il nipote di Cevdet, un Işıkçı anche lui, ma inviso alla famiglia, declinerà il suo ruolo di “portatore di luce” diventando ufficiale dell’esercito (risuona forse nel suo nome quello del teorico nazionalista Ziya Gökalp). Il romanzo, strutturato sulle opposizioni caratteriali dei molti personaggi, è un succedersi di dialoghi, anche interiori e non detti. Benché le pagine dedicate a Cevdet non siano molte, è giustamente suo il nome che compare nel titolo, perché i suoi dialoghi con il fratello e con il futuro suocero sono tra i più belli e significativi del testo.

Se Cevdet contiene in nuce la successiva produzione dell’autore, la sua prima parte è la radice del suo sviluppo futuro, quella cioè in cui ci si comincia a chiedere “chi sono e cosa devo fare della mia vita”. Questa domanda è un tema che musicalmente si sviluppa in infinite variazioni. La musicalità è sottolineata da ripetizioni ritmiche di parole e concetti (essere un Rastignac, suicidarsi, il conflitto per la provincia di Hatay), o da riapparizioni di personaggi anche a distanza di centinaia di pagine (caso limite: uno sconosciuto Cenap Sorar, citato in un banale articolo di cronaca a pag. 130, ricompare a pag. 613 come secondo marito di una delle protagoniste della storia).




La complessità sinfonica della vicenda invita alla rilettura del modello, “I Buddenbrook” di Thomas Mann. Il quartiere di Nişantaşı rimanda a Lubecca, il commerciante Cevdet al commerciante Johann, il Refik nervoso lettore delle Confessioni di Rousseau al Thomas Buddenbrook consultatore insoddisfatto del Mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer. Ma le somiglianze fanno in ultima analisi risaltare una fondamentale differenza: il romanzo di Mann racconta il declino di una famiglia e di un mondo, quello di Pamuk, la sua ascesa, per quanto tormentata e drammatica.

La parola centrale del romanzo è perciò nişan, ‘bersaglio’. Ogni personaggio cerca di individuare il suo ed è dunque proiettato in avanti. Nel testo la parola ricorre in vari contesti, a riprova del maestoso controllo che Pamuk ha della sua lingua e che talvolta nella traduzione italiana si scioglie in una scorrevolezza facile e “amica del lettore”, a cui si è del resto offerto un romanzo storico senza corredarlo di note, perché non si affatichi.

Il cognome che (per legge, nel 1934) si è scelto Muhittin è Nişancı, perché il padre in guerra era appunto “bersagliere”, fuciliere scelto. Ciò spiega la sua battuta in uno dei tanti momenti di sconforto: sarebbe stato più giusto scegliere Nişancıoğlu, “figlio del bersagliere”, visto che non so cosa fare della mia vita (p. 327). I fidanzamenti, falliti o a buon fine, che coinvolgono molti personaggi, rammentano che in turco l’anello di fidanzamento si chiama “anello del bersaglio”.

E, infine, va ricordato che la villa di Cevdet, centro ideale della vicenda, è nel quartiere di Nişantaşı, che significa “pietra del bersaglio”, perché i soldati ottomani andavano in quella zona, prima che divenisse residenziale, per esercitarsi al tiro. Se non tutti i suoi personaggi, l’autore ha di sicuro centrato il suo obiettivo, collegarsi alla grande tradizione del romanzo europeo, ma esplorando l’anima della nascente borghesia turca. Oltre che a Mann, Pamuk si è infatti ispirato ai russi dell’Ottocento, ricostruendo ad esempio certe febbrili riunioni politiche in cui è coinvolto Muhittin a partire dai Demoni dostoevskijani, o donando al Refik aspirante riformatore del sistema agrario l’afflato del Levin di “Anna Karenina” (Refik è un Levin fallito).




L’operazione artistica trova inoltre interessanti paralleli cinematografici con il contemporaneo Fanny e Alexander (1982) la grande saga familiare in cui Ingmar Bergman rielabora gli anni della propria infanzia e “Amore e guerra” (1975) di Woody Allen, omaggio parodico ma dolente a Guerra e pace. Come Allen e Bergman, Pamuk prende come materiale di base la propria vita interiore, pur strutturando la sua opera su modelli preesistenti. Ne è prova La valigia di mio padre, il discorso pronunciato nel 2006 a Stoccolma in occasione del premio Nobel: la dialettica tra Pamuk e suo padre la troviamo già tra Refik e Muhittin, ovviamente modificata dall’arte romanzesca.

E Pamuk stesso è in tutti i personaggi di Cevdet, ma platealmente è in Ahmet, il figlio di Refik, aspirante pittore nel 1970, che legge il diario del padre senza capirlo nell’intimo. Alla fine, però, “in ascesa”, al contrario di Hanno Buddenbrook che muore di tifo e mette fine alla sua dinastia, entra nella sua stanza e comincia a lavorare.

Originariamente questa recensione era uscita su “Alias – il manifesto”.