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Paolo Cognetti

Intervista a Paolo Cognetti. In una versione più breve è uscita su “La Nuova Ecologia”.


Paolo Cognetti è uno dei più interessanti autori della generazione anni 00. Nasce e si fa conoscere all’insegna di quel registro narrativo, da noi raro e non amato da editori e lettori, di scrittura di racconti. E infatti ama l’America di Carver, della Paley e della O’Connor e ha scelto per le sue prime raccolte di racconti la Brianza e l’hinterland milanese, come fossero le small town dei suoi maestri. Ora lascia la Minimum Fax (lì erano usciti “Manuale per ragazze di successo” e “Sofia si veste sempre di nero”) e passa all’Einaudi e al romanzo salutato da osanna internazionali e traduzioni in corso in tanti paesi. “Le otto montagne” (18,50 €) è entrato meritatamente nei primi posti delle classifiche della narrativa italiana ma senza strizzatine d’occhio e con quella definizione scabra che hanno le cime – quelle valdostane in particolare – e i rapporti tra uomini. Un padre e un figlio e due amici cresciuti insieme, nessuna sfumatura di grigio piuttosto l’avventura alla London o Hemingway, l’altro magistero che non ha dimenticato. “Si può dire che mi appartiene – ha detto Cognetti della storia del libro – quanto mi appartengono i miei stessi ricordi. In questi anni, quando mi chiedevano di cosa parla, rispondevo sempre: di due amici e una montagna”.

Il libro sembra partire dalla manualistica CAI per quanto romantica, fredda – la nomina forse per poi superarla – per passare a una lingua che chiama le cose come sono: bosco bosco, roccia roccia ecc. Questo discorso linguistico quanta importanza ha avuto per te nell’iniziare a scrivere questo libro?

Molta importanza e ti ringrazio per la possibilità di discuterne. La manualistica del Cai, nell’infanzia di Pietro, sta insieme ai romanzi d’avventura di Stevenson e compagnia: è una montagna esotica, un altrove romantico in cui rifugiarsi durante i lunghi inverni in città. Lui da ragazzino legge indifferentemente L’isola del tesoro e la guida ai sentieri del Monte Rosa. Stampata sulla tessera del Cai – di cui sono socio da una trentina d’anni – c’è sempre la frase di Guido Rey “io credetti e credo la lotta con l’Alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede”. Non sono parole vuote, le capisco bene perché sono state insegnate anche a me: il padre di Pietro va in montagna in quel modo e lo educa a quei valori. Però nel corso della sua vita, attraverso il rapporto con Bruno, Pietro impara un altro modo di andare in montagna. E dalla prospettiva del cittadino – senza che nessuna delle due sia necessariamente migliore dell’altra – compie un movimento verso quella del montanaro. La lingua lo segue: la lingua dei romanzi d’avventura diventa la lingua di chi la montagna la abita, la lingua degli alberi, delle rocce, dei torrenti e dei pascoli.

Non è stato facile passare da una scrittura cittadina se non addirittura “periferica” a una di paesaggio. Come hai preparato questo passaggio? O forse dovrei chiederti quanto (o quando) la vita in Val d’Aosta affiancata a quella milanese è sopravvenuta sulla scrittura? Quali scrittori l’hanno influenzata? L’avventuroso London, il radicale Thoreau…

Sì, prima è venuta la vita. Sono convinto che la scrittura non nasca nel chiuso di una stanza: sia le storie che la lingua sono il frutto di ciò che uno scrittore fa, i posti in cui va ad abitare, le persone che incontra, i lavori con cui si mantiene. Io passo sei mesi all’anno in una baita in Val d’Aosta ormai da diverso tempo. Questa scelta, all’inizio dettata da una crisi personale e da un desiderio di fuga da Milano, ha investito la mia scrittura come un treno. Lassù passo molto tempo da solo, giro per le montagne, sto con i miei due amici montanari, leggo e scrivo. Sono cambiate le mie letture perché è un po’ strano abitare in mezzo ai boschi e immergersi, che ne so, in un romanzo urbano newyorkese; ho cercato scrittori più vicini alla mia condizione e mi sono appassionato ai libri di Rigoni Stern, di Thoreau e tanti altri. È stato naturale poi cominciare a scrivere del paesaggio che avevo intorno. Usando la lingua di questi miei maestri ma anche quella dei montanari con cui parlo tutti i giorni.

Questo libro sembra per così dire un libro verticale. C’è un sopra e un sotto non sempre e solo coincidenti con vetta e paese, barma e casa di villeggiatura. C’è un su e giù che tocca il mondo degli adulti e quello dei ragazzi, paternità e figliolanza, classi sociali antipodiche…

A me la verticalità che hai trovato nel libro fa venire in mente la spiritualità. Credo ci sia una tensione spirituale nel rapporto tra Pietro e Bruno, e nel desiderio di entrambi di andare, ognuno a modo suo, verso l’alto. Sono due uomini in cerca di un loro assoluto. E poi, tornando a Thoreau, la vita in montagna è semplificata, sfrondata del superfluo di cui è fatta la vita in città (“Andai nei boschi perché volevo vivere in maniera autentica, per affrontare solo i fatti essenziali della vita…”). Cose superflue, rapporti superflui, parole superflue. E per andare in cima alle montagne bisogna camminare e far fatica. Essenzialità, silenzio, cammino, fatica: di questo è fatta la vita in montagna che intendo io, per questo dico che è una vita spirituale.

La montagna viene vista dalla città e dal paese: comunque è sempre lontana finché il protagonista non la sale. E lontana continua ad essere in un certo senso finché non sale senza essere “in cordata” col padre.

Credo sia lontana anche per chi abita in montagna, finché non ci vai davvero. O meglio: finché non vai da solo su un sentiero sconosciuto, e sperimenti come si sta montagna, in solitudine, per la prima volta. A chi manca quell’esperienza secondo me manca qualcosa di importante della montagna, può anche abitare lì sotto ma la vede sempre da lontano.

Nel romanzo non sono risparmiate quelle categorie di “sportivi” che si avvicinano alla montagna con interesse diciamo così “da diporto” o olimpionica non conta.

Non ce l’ho con gli sportivi ma con i consumatori, e col turismo di massa. Rispetto modi di andare in montagna diversi dal mio, per esempio chi ci va a correre o chi ci sale in bicicletta o chi si butta giù con un parapendio. Invece non rispetto per niente chi ha distrutto buona parte delle nostre montagne, cioè le masse di sciatori da pista. Esistono anche modi diversi e non-violenti di sciare, ma per costruire una pista bisogna disboscare un pendio, togliere i sassi, spianare le buche con le ruspe, costruire un impianto di risalita e un impianto di innevamento, mettere tubi, cannoni, piloni, gettare cemento. È la cosa più antiecologica che si possa fare in montagna e mi fa ridere che un ecologista sia magari contro la caccia, e poi vada a sciare.

Che valore attribuisci all’ecologia?

Altissimo. Credo che l’ecologia che pratichiamo sull’ambiente corrisponda a un’ecologia di noi stessi, nel senso che vivere bene, leggere, camminare, pensare, cercare di diventare persone migliori, stare bene con gli altri, siano un tutt’uno con un vivere ecologico. L’ecologia è non-violenza dell’uomo sulla terra e sugli animali, su altri uomini che vivono accanto a te e su quelli che verranno dopo. Cerco di praticarla come posso.

Nel tuo libro la montagna ha una sua vita(lità). Penso al momento della slavina ma anche a certi momenti della crescita “montanara” di Pietro. Che forza dai a questa iniziazione? E in che misura hai voluto condensarla nell’immagine del Monte Sumeru della tradizione buddista?

L’alta montagna, almeno in Italia, è l’unico pezzetto di terra non toccato dall’uomo. Noi non abbiamo i deserti del sud o le distese di boschi del grande nord, viviamo in un posto in cui l’uomo è ovunque e l’urbanizzazione capillare, tranne che in cima alle montagne (e anche lì sono spazi di libertà molto ridotti: non puoi camminare più di qualche ora sulle Alpi senza arrivare in un paese, e nemmeno nei valloni più isolati puoi non vedere segni di presenza umana). Se la terra è viva, come retoricamente ripetiamo senza pensare a quello che stiamo dicendo, allora bisogna concludere che la sua è una vita di schiavitù, sotto questo tiranno spietato che è l’uomo. Andando in montagna è molto forte la sensazione che il mondo selvatico fugga da noi: gli animali ci temono, si nascondono, scompaiono appena passiamo; tornano a fare la loro vita quando noi ce ne siamo andati. E così la montagna tutta. Penso a volte a quei film catastrofici in cui l’umanità è sterminata e sembra una tragedia, ma la verità è che per la terra liberarsi dell’uomo sarebbe un gran festa, un 25 aprile. Questo è anche il senso della slavina finale, o di quelle notti in cui Pietro spegne la torcia, sta attento a non fare nessun rumore, e gli pare quasi di percepire che cos’è la montagna senza di lui.

Cosa vuol dire per te amare la montagna? E come la metti in ordine con i tuoi “altri” grandi amori: New York, Milano?

Non sento il bisogno di metterli in ordine, non si mettono in ordine gli amori. Al momento amare la montagna vuol dire viverci, rispettarla e a mio modo battermi perché sia rispettata, continuare a esplorarla nella vita e nei libri, e aver cominciato a scriverla. Mi sento solo all’inizio. Ho una gran voglia di andare avanti così.




Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).