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Passeggiare svagati tra le righe

Anticipiamo un estratto – Passeggiare svagati tra le righe – dalla nuova edizione di “Perdersi a Roma. Guida insolita e sentimentale” di Roberto Carvelli che esce in questi giorni per ediciclo.

Anticipiamo un estratto – Passeggiare svagati tra le righe – dalla nuova edizione di “Perdersi a Roma. Guida insolita e sentimentale” di Roberto Carvelli che esce in questi giorni per ediciclo.

PASSEGGIARE SVAGATI TRA LE RIGHE
Camminiamo distratti. Passeggiamo svagati nelle città. E flânerie è il nome bello per tanta inconcludenza spazio-temporale. Un piede dietro l’altro e senza meta. Non sappiamo dove ci porterà il nostro scombussolato orientamento, andiamo.

Una situazione animosa dell’andare che finisce per colonizzare spesso anche la letteratura. Talvolta si tratta di un fulcro che illumina i passi urbani: accade per esempio così in Baudelaire. E ha poi epigoni in autori di viaggi trasversali tra capacità di osservazione e di comprensione come John Berger, per citare un’affiliazione meno diretta.

PiĂą spesso, ritroviamo strade come un interlocutorio riempimento del testo
maggiore, di una trama finalizzata a un’uscita in romanzi più orchestrati. Forse Virgilio avrebbe chiamato anche queste parti di testo tibicines, versi incompleti destinati a sostenere la parte più sentita e senziente dell’opera.

Rimango da sempre affascinato da questi puntelli svagati e vaganti del testo. Il protagonista cammina e lo scrittore ce ne restituisce i passi. Leggiamo una trama, avvinti dal plot, e poi rimaniamo incantati a immaginare lo sfondo del suo andare.

Il punto della questione sta altrove, lo sappiamo, eppure ci concentriamo su un fondale e siamo lì a chiederci se sia di cartapesta o meno. A mente proviamo a rifare gli stessi percorsi per scoprirli congrui. Se quelle righe non ci vengono restituite come una parte in qualche modo significativa (essenziale) del libro, noi comunque siamo lì a chiederci
se siano o no casuali, giustapposte. Un po’ come accade nelle
sequenze di un film. Dove è stato girato? Sono gli esterni che riconosciamo?

Sandro Onofri nella sua ultima e maggiore opera narrativa
(L’amico d’infanzia, Mondadori) fa andare così il suo Fausto:

«Uscì dal centro storico, camminò lungo i marciapiedi con le
spalle curve, resistette alla tentazione di acquattarsi in un bar
e riempirsi di alcol. Doveva restare lucido. Si ritrovò alla Piramide, una marchetta gli si mise alle costole, lui si lasciò seguire
finché quello non capì l’antifona e voltò i tacchi. Cominciò a
piovere. Passò per i vicoli più protetti, riempì i polmoni degli
odori andati dei Mercati Generali. Poi, giunto in via Matteucci, passò davanti alla merceria di una che da giovane gli aveva
istigato molte fantasie. Si chiamava Adele, Fausto non le aveva
mai parlato».

Trascurabile? Forse. Ma c’è da credere trattarsi di un correlato spaziale dall’autore pensato necessario al disegno della storia. Quanto è necessario un luogo alla narrativa?

Quanto Roma, in particolare, serve a nutrire il racconto degli
autori che vi hanno ambientato storie?