Esce “Ultimo domicilio conosciuto. Tredici storie sulle pietre d’inciampo” (Morellini), antologia curata da Andrea Tarabbia, la cui introduzione qui in parte citiamo – ringraziando autore ed editore.
Gli autori dei racconti antologizzati sono: Eugenia Ragnoli, Silvia Pelati, Michele Monni, Antonella Gullotta, Agnese Gorgolini, Leonardo Foriglio, Ferdinando Cerrato, Silvia Cadonici, Antonio Bria, Laura Ballestrazzi, Vanni J. Balestra, Mattia Frigeri, Stefano Accorsi, Andrea Settembrini.
Dall’introduzione di Andrea Tarabbia
Fin da quando ero piccolo, per qualche motivo che non so, la parola “Norimberga” mi fa paura. Badate: la parola italiana Norimberga, non il nome originale, che è Nürnberg e che non mi fa nessun effetto.
Alcune estati fa, dopo molti anni in cui continuamente rinviavo il viaggio e in seguito a certe letture, ci sono andato: era, in un certo senso, anche un modo per mettermi alla prova. Il nome di Norimberga mi inquietava e mi inquieta per via di quel suono lugubre, che chiama subito alla mente la Vergine e certe spaventose pratiche medievali; Norimberga è anche il luogo, però, dove si trova la Unschlittplatz, la piazza del Sego, che è dove nel 1828 fu ritrovato Kaspar Hauser – uno dei miti fondativi dell’unità europea; ma è anche, e per certi versi soprattutto, uno dei luoghi dell’immaginario nazista.
Giravo per la città alla ricerca di posti che avessero a che fare con la memoria di quel dodicennio, visitai la sede del Tribunale – dove c’è un museo e l’aula dove si tenne il Processo, ancora attiva e in certi momenti dell’anno aperta al pubblico benché modificata rispetto al 1945/46 – lo Zeppelinfeld, il Campo di Marte e l’impressionante architettura di tutta l’area dei raduni. È un luogo di sintesi, Norimberga: c’è il nostro Medioevo, c’è Kaspar, c’è Hitler; è stata a lungo la capitale dell’industria del giocattolo e dell’ingegneria ferroviaria tedesche. Così forse non è un caso che sia stato proprio lì, in quella città dal nome spaventoso e così gravida di Europa, che ho inciampato per la prima volta in un Stolperstein, una pietra d’inciampo.
Ci sono inciampato davvero, non è retorica: la pietra veniva fuori dal suolo di qualche millimetro, e lì è andata a sbattere la punta della mia scarpa. Gunter Demnig ne sarebbe contento. Avevo allora un’idea vaga di cosa fossero le Pietre d’inciampo: ne avevo letto distrattamente da qualche parte, ma dopo essere incappato in una di esse le cose sono cambiate.
Ho cominciato a camminare per la Germania guardando per terra: ho visto pietre a Bamberga, a Lubecca, a Colonia, ad Amburgo; e poi a Bolzano, durante il viaggio di ritorno verso Bologna. Tornato in Italia, mi sono messo a cercarle: ce ne sono moltissime a Roma, a Torino, a Venezia, perfino a Milano – tutti luoghi dove vado abbastanza di frequente e dove, quando ho tempo, cerco le pietre. Le Pietre d’inciampo sono dei sampietrini d’ottone che dalla metà degli anni Novanta l’artista tedesco Gunter Demnig impianta nel selciato delle città dell’Europa.
Da oltre vent’anni, Demnig si sposta per il Vecchio continente, taglia un pezzo di marciapiede e vi inserisce questo piccolo monumento che porta inciso un nome e un cognome, un luogo e una data di nascita, un luogo e una data di morte (se sono noti): sono i dati nudi in cui è racchiusa la vita di qualcuno che è stato deportato in un campo di concentramento nazista. Demnig ha cominciato impiantando pietre dedicate a rom e sinti e, subito dopo, agli ebrei, ma adesso le categorie si sono ampliate, e racchiudono per esempio anche gli internati militari – ovvero quei soldati che si ribellarono al fascismo che pure avevano servito, e che per questo furono puniti con la deportazione. Deming non mette le sue pietre nelle piazze o in luoghi deputati alla celebrazione e alla memoria: le mette in corrispondenza dei portoni – dell’ultimo domicilio conosciuto del deportato.
Così, capita di citofonare a qualcuno e di posare il piede sulla memoria della deportazione: so che questa cosa, in alcune città, soprattutto in Germania, ha creato dei problemi per questioni di privacy e anche perché, in un’epoca dove l’antisemitismo è di nuovo in crescita, di fatto, le pietre segnalano dove vivevano famiglie ebraiche e dove, a volte, vivono ancora i loro discendenti.La cosa grandiosa di questo progetto di memoria diffusa è che costringe a ricordare. Non si propone, come fanno ad esempio i musei dedicati all’Olocausto, come luogo di conservazione di documenti, dati, immagini, testimonianze; entra invece nella vita normale delle persone, anche di coloro che rifiutano di pensare a ciò che è stato.
Al museo ci devi andare; su una pietra ci capiti. La pietra costringe a ricordare, è un monito e una memoria, e rende spaventosamente vicino, quotidiano, un fatto come la guerra, la deportazione, l’orrore che è stato, e che spesso rischiamo di archiviare come qualcosa di passato, concluso e che non ci riguarda. Invece, dicono le pietre, la morte di queste persone e il loro dolore hanno a che vedere con le nostre vite, e ci riguardano proprio in virtù del fatto che abitavano dove adesso c’è il panettiere, o dove si è appena trasferita la famiglia del compagno d’asilo di nostro figlio.