Il Policlinico Umberto I, dedicato all’omonimo re italiano, è la faccia operativa della facoltà di Medicina e Chirurgia della Sapienza Università di Roma. La sua costruzione venne iniziata nel 1883 su un progetto di Giulio Podesti (lo stesso del traforo Umberto I di via Milano e del Grand Hotel) e Filippo Laccetti (ma collaborerà anche Edgardo Negri, nipote del primo). I lavori dureranno vent’anni e l’inaugurazione avverrà alla presenza del re a cui verrà poi dedicato. Il clima in cui nasce e si sviluppa il progetto è quello della Roma attesa a diventare capitale moderna del nuovo Stato Unitario. Anche se oggi qualcuno ne riderebbe, in quegli anni divenne modello di scuola per l’ospedale a padiglioni effettuando un passaggio storico nell’architettura sanitaria europea della seconda metà dell’Ottocento.
E’ un buon percorso della domenica, non certo dei giorni feriali in cui trasuda macchine e gente in debito di ossigeno (anche e soprattutto quelli che non girano con la bombola, invero pacati e rassegnati rispetto agli altri). La domenica ne potrete conoscere il suo lato meno ansiogeno. Le palette con i nomi non saranno la chiamata a una difficile caccia al tesoro del parente morente o dolorante.
La strade sono abbastanza regolari. Vi verrà da ricordare la storia che lo ha reso oggi forse un po’ antiquato e d’antan ma pur sempre simbolo di una certezza clinica. L’ospedale per eccellenza di Roma “frati” a parte (ovvero Fatebenefratelli, con vestigia di ortodonzia che hanno traguardato i decenni e sono diventate un modo di dire romano).
Le strade – si diceva – hanno profili regolari. Rare se non inesistenti le salite. Ma ogni tanto vi troverete in cima a qualche collina a guardare con aria di superiorità la sottostante Regina Elena o l’orizzonte della Regina Margherita (ah quanto sangue blu da queste parti!). I carrelli girano indisturbati per i viali trasportando cose pulite e cose da incenerire. Le ambulanze stazionano sonnolente. I portantini e gli infermieri fanno il gioco dell’esagerazione che conoscemmo in una magistrale prova del Verdone migliore. Qualcuno accenna a fatti contrattuali che sventolano sotto le insegne delle sigle sindacali.
Mentre pedalo si alternano i padiglioni, le cliniche e io ritrovo la mia piccola storia famigliare. Mio padre e il luogo in cui lavorò. Fino a mio padre e il luogo in cui conobbe il ricovero della caduta che poi lo avrebbe inesorabilmente portato alla morte. In un tornate conosco l’istituto di radiologia in cui insegnerà, sostituendo colleghe e ottenendo meno del dovuto per il carattere poco incline al patteggiamento e alla seduttività. Una schiettezza che ho – un po’ per sfortuna – fatto mia.
Le gambe passano quel monumento universitario che è l’inceneritore. Un profilo che conosco dai miei banchi universitari. Una sorta di stella per tornare a casa. I giardini, invasi dalle cornacchie, con i pini a svettare mi rendono felice. Non posso dire di essere stanco e non potrei consigliare questo percorso a chi fosse in cerca di sfide olimpioniche ma torno a casa felice e in pace. Un po’ mi sembra di aver salutato mio padre un po’ di aver detto un arrivederci al me di una volta. Un tipo diverso di sudore.