Esce “Resurrezioni” (Tombolini editore). Il nuovo coraggioso e iniziatico romanzo di Federico Platania. Eccovene un’anticipazione.
Federico Platania è uno scrittore di successo – ma qui ci sbrodoliamo un po’ essendo anche un collaboratore di Perdersi a Roma.
Quando collassò su se stesso il colossale serbatoio della Sebastiani conteneva oltre sette milioni di litri di melassa. Il liquido bruno, separato dallo zucchero di canna per centrifugazione, veniva conservato nel serbatoio in attesa di essere distillato in alcol industriale. Uno dei principali clienti degli zuccherifici Sebastiani era una ditta che acquistava grossi quantitativi di alcol industriale per produrre fulminato di mercurio, acetone e cordite, componenti utilizzati per esplosivi e polveri infumi. Quel 12 marzo del 2007, quando la struttura del serbatoio aveva ceduto, la produzione era ferma da alcuni giorni.
Gli operai della linea di distillazione erano in assemblea permanente per costringere il management della Sebastiani a dare loro una risposta chiara sulle sorti dell’azienda. Erano vere le voci che parlavano dell’outsourcing di alcuni settori dello zuccherificio? Era vero che la linea di distillazione avrebbe chiuso e alcune decine di operai sarebbero stati messi in mobilità? Era vero che un imprenditore straniero era interessato a rilevare alcuni settori della Sebastiani senza dare però alcuna garanzia occupazionale al personale già in forza?
Quella del marzo del 2007 non era stata l’unica protesta del personale. Nei mesi precedenti i ritmi di produzione avevano altalenato spesso e il gigantesco serbatoio di melassa si riempiva in modo discontinuo. La melassa calda, appena fuoriuscita dai condotti collegati agli impianti di centrifugazione, si riversava all’interno del serbatoio mischiandosi a quella del rimbocco precedente, ormai già fredda e densa, dando vita a una poltiglia spumosa che vibrava contro le pareti del serbatoio.
La reazione innescata dalla miscela di melassa a due diverse temperature comportava fermentazione e produzione di gas. In un serbatoio pieno il gas aumenta la pressione che preme contro le pareti. Nulla che non sia noto ai chimici e agli ingegneri che progettano gli impianti di distillazione e centrifugazione degli zuccheri. Quello che i chimici e gli ingegneri non potevano sapere era che il colossale serbatoio della Sebastiani, che quel 12 marzo del 2007 era colmo fino all’orlo, non veniva manutenuto da tempo e che i test di tenuta della struttura erano stati condotti in modo superficiale.
Quando Sergio Ferreri era diventato amministratore delegato della Sebastiani, la linea di distillazione della melassa in alcol industriale non si era ancora aggiunta agli altri settori dello zuccherificio. Vito Manuppello era il responsabile delle risorse umane e della sicurezza sul lavoro. I premi di produzione erano legati alla messa in opera della nuova linea di distillazione entro i tempi previsti dal piano industriale. A rischiare di far slittare tutto oltre le scadenze era stata proprio la costruzione del gigantesco serbatoio.
Dal ballatoio della palazzina uffici, una piccola penisola di cemento che si spingeva verso i campi a partire dal complesso degli stabilimenti produttivi, i due top manager guardavano nervosamente gli operai della ditta di installazione che issavano i giganteschi anelli di metallo del diametro di ventisette metri, uno sull’altro, formando lentamente, troppo lentamente, la cupa sagoma del serbatoio. Già in quei giorni e in quelle sere il serbatoio appariva come una promessa di sciagura. Finito il ciclo di produzione del mattino e poi quello del pomeriggio, nell’area industriale degli zuccherifici non rimanevano che gli operai della ditta esterna costretti allo straordinario forzato per completare in tempo la costruzione e Ferreri e Manuppello sul piazzale che scrocchiavano i denti tra una telefonata e l’altra, gli occhi fissi sul cupo container.
Terminata la costruzione del serbatoio, il contratto con la ditta di installazione prevedeva un test di tenuta da effettuare con un rifornimento di acqua. Manuppello conosceva bene il documento di messa in opera che gli aveva passato il responsabile dei lavori. Era ancora possibile rientrare nei tempi e nei costi previsti, ma non se si fossero seguite le procedure e dunque riempiendo il serbatoio con milioni di litri di acqua per verificarne l’effettiva tenuta. Manuppello ne parlò brevemente con Ferreri.
Quando Ferreri disse a Manuppello cosa avrebbe dovuto fare, Manuppello aveva gli occhi fissi su un fermacarte ambrato, un solido geometrico dalla forma particolare, una forma che aveva visto solo sulla scrivania di Ferreri. Un antiprisma, questo era il nome di quel solido. Quando avvenne la tragedia, e poi negli anni seguenti tutte le volte che a quella tragedia avrebbe ripensato, Manuppello avrebbe sempre avuto in mente l’antiprisma, le sue molteplici simmetrie, la sua natura convessa.
Mentre Manuppello fissava l’antiprisma sulla scrivania, Ferreri diceva: – Ai documenti ci penso io. Fai riempire il serbatoio solo all’altezza del primo anello. Se dalla prima giuntura non ci sono perdite, procediamo –.
E così fece. Le condutture furono aperte. L’acqua cominciò a fluire lungo il tubo da venticinque centimetri. Le flange con la guarnizione tennero, le giunture tra il primo e il secondo anello tennero. Non ci furono perdite. Le condutture furono subito chiuse, il serbatoio svuotato e dopo quella parodia di test di sicurezza la struttura fu dichiarata agibile.
Pochi giorni prima dell’incidente, dal serbatoio proveniva un gorgoglio regolare. Uno degli addetti alla linea di distillazione, appoggiando la schiena contro le pareti dell’anello più basso, le aveva sentite vibrare. Era una vibrazione che aveva qualcosa di naturale. Sembrava che il serbatoio stesse respirando con affanno.
La mattina del 12 marzo 2007, intorno alle ore 9, lo stabilimento degli zuccherifici Sebastiani era quasi deserto. La maggior parte degli impiegati e dei manager sarebbe arrivata circa un’ora più tardi. Gli operai erano in massa a una manifestazione di protesta davanti alla sede della Regione Veneto. Gli unici presenti erano cinque amministrativi – Diego Cremonesi, Federico Pagnotto, Franca Davide, Paolo Leoni e Serena Siciliano – e due addetti alla sicurezza, di una ditta esterna.
Erano le 9 e 3 minuti quando il serbatoio non riuscì più a contenere l’enorme ammasso di melassa in fermentazione. I rivetti di sicurezza che tenevano insieme gli anelli di acciaio schizzarono via come pallottole. La struttura cedette lasciando la melassa libera di sfogare l’energia accumulata. Un qualunque mezzo che avesse sorvolato l’area in quel momento avrebbe visto un muro circolare di liquido viscoso allargarsi in direzione dei quattro punti cardinali alla velocità di sessanta chilometri l’ora. I caseggiati industriali più vicini al serbatoio si sbriciolarono in pochi secondi, mentre l’aria cominciava a caricarsi di quel nauseante odore dolciastro che avrebbe abitato la zona negli anni a venire. Nel giro di cinque minuti l’onda bruna aveva distrutto e ucciso tutto ciò che aveva trovato sul suo cammino e ora si era ridotta a una gigantesca macchia sul territorio.
Diego Cremonesi e Federico Pagnotto davano entrambi le spalle alla finestra del loro ufficio quando il serbatoio cedette. Fu il grido di Franca, nella stanza accanto, a richiamare la loro attenzione. Ma anziché voltarsi verso la finestra, Diego e Federico uscirono nel corridoio per raggiungere i loro colleghi nell’ufficio accanto e capire cosa fosse successo. Così, i cinque impiegati, osservarono insieme il fronte nero dell’onda procedere verso di loro senza che nessun ostacolo potesse rallentarlo. Paolo Leoni e Serena Siciliano furono i primi a morire, schiacciati dalla parete frontale della palazzina uffici che si accartocciò su di loro. Gli altri tre, travolti dalla melassa penetrata nell’edificio, furono scaraventati sotto nicchie di macerie che consentirono loro di sopravvivere per qualche minuto, raggelati nel dolore delle fratture e del liquido nero che gli riempiva velocemente il naso e la bocca fino all’asfissia.
Mezzora dopo il disastro, Vito Manuppello svoltò a destra lungo la strada privata che conduceva agli stabilimenti. Sentì immediatamente la zaffata irreale di odore dolce chiudergli la gola. Da quel giorno non sarebbe più riuscito a mangiare o bere nulla che contenesse zucchero senza provare i conati del vomito. A sorprenderlo non fu tanto la materia bruna che ricopriva ogni cosa nell’area, quanto l’assenza, in quell’orizzonte quotidiano, della sagoma nera del serbatoio. Quando capì cosa era successo le gambe iniziarono a tremargli, la sinistra si staccò involontariamente dalla frizione e l’auto si spense di colpo. Manuppello uscì in strada, il lembo estremo della macchia di melassa a pochi metri da lui. Chiamò Ferreri al cellulare. Sbagliò per tre volte la sequenza di tasti per raggiungere il numero memorizzato in rubrica e, quando Ferreri rispose, Manuppello non disse nulla. Solo dopo alcuni secondi riuscì a dire: – È successo… vieni subito… è successo –.
Venti minuti dopo arrivò Ferreri e poi i vigili del fuoco.
Il loro tentativo di sgombrare almeno parzialmente l’area con gli idranti fece sì che la melassa si cristallizzasse ancora più velocemente dando vita a una crosta zuccherina, la scenografia di un film dell’orrore.
I primi corpi furono recuperati intorno alle dieci e venti. Li allinearono sull’erba, in un tratto pulito, rimuovendo le incrostazioni di melassa con acqua calda e bicarbonato. Poi arrivarono alcuni giornalisti, due auto della polizia e le ambulanze, con le sacche nere. Manuppello era tornato a sedersi in macchina, la testa perduta nella disperazione. Aveva paura, paura della giustizia, paura della miseria, paura di quei cadaveri sdraiati a pochi metri da lui. E mentre era lì, avvolto nel fumo dolciastro, sentì la voce bassa di Ferreri che parlava con un giornalista.
– Siamo sconvolti da quanto è accaduto oggi alla Sebastiani – diceva Ferreri, mentre Manuppello si raccoglieva in posizione fetale sul sedile della sua auto, al riparo dallo sguardo degli altri – sono addolorato per la morte dei nostri dipendenti. Ho già parlato con le autorità e sono a completa disposizione per l’inchiesta che dovrà essere fatta per ricostruire la dinamica dell’esplosione che ha provocato questa sciagura.
Allora a Manuppello tornò in mente l’antiprisma sulla scrivania di Ferreri. Quella forma che appariva malata da qualunque angolo la si guardasse nonostante le sue rassicuranti simmetrie. Esplosione. Ferreri aveva utilizzato quella parola. Non aveva parlato di incidente. Non aveva parlato di responsabilità. Aveva detto: dinamica dell’esplosione. Nonostante la nebbia che gli soffocava la mente, Manuppello capì con chiarezza cosa stava cercando di fare Ferreri.
Poche settimane dopo saltò fuori il nome di Riccardo Merz.