Roma-Perugia in Vespa. Un viaggio a due tempi.
GALASSIA VESPA
Un viaggio a due tempi
Roma-Perugia
Domenica. Nel settantesimo anniversario dell’era dell’ingegner Corradino D’Ascanio, mi preparo all’intrepida traversata Roma-Perugia A/R – l’unica distanza che reputo abbordabile in appena due mosse – in sella a una delle sue più fortunate creazioni: una Vespa 125 VNB del 1963 color grigio-azzurro.
Nella chiappa cava che funge da portabagagli ho stipato un litro di miscela al 3%, una bottiglia di olio per motori, un misurino, uno straccio, qualche chiave inglese, una candela di scorta, una radio portatile e una bottiglia d’acqua per me e per lei.
Alle sette del mattino di una domenica di maggio, apro il rubinetto del serbatoio e parto verso la Cassia direzione Nord. La giacca a vento garrisce come una bandiera mentre i guanti sono rimasti sul letto di casa, al caldo. Viaggio a una media di sessanta chilometri orari sulla strada ancora sgombera e male asfaltata e sulla destra all’altezza di Campagnano vedo la sagoma di un circo che cerca di spingere le strisce bianche e rosse del suo tendone fuori dalla caligine.
Guido cercando di schivare carcasse esplose di ricci e volpi e di mettere a fuoco lo sguardo sullo specchietto che trema come un vecchio. Castel Sant’Elia, Nepi, Monterosi. Le pinete diventano noccioleti, castagni poi man mano che entro nella provincia di Viterbo le Smart dei romani lasciano il posto alle Jeep indigene. Come in un inventario a nastro vedo la provincia che cresce e l’Etruria: segherie, mobilifici, smorzi, Sutri crivellata, Capranica e la sua fabbrica di Chinotto, qualche carro allegorico messo a riposo fino alla prossima sagra e tristi case di riposo con nomi allegri.
Molte salite e qualche tornante fino a trovare il primo trattore lungo il mio viaggio che rimorchia una specie di grossa turbina da cui ciclicamente schizzano come proiettili alcune nocciole.
I moscerini morti hanno impallato la visiera del mio casco e mi fermo dopo i primi settanta chilometri per pulirla. Trovo un forno nei pressi di Cura che serve colazioni in un piccolo giardino popolato da gatti e conigli. Provo a bere il caffè ma la mano non riesce a stare ferma credo a causa del freddo e delle vibrazioni della Vespa. Se almeno si aprisse il cielo.
Venti minuti, giusto il tempo di far freddare il motore e riprendo la strada. Come sentinelle piantonano le chiese campestri, una casa cantoniera in cui il glicine si è aperto una breccia tra le mura, due cinema, i passaggi a livello scampanati, le croci di sant’Andrea e poi Viterbo, l’odore del bullicame insieme a tutto lo scialo del tufo.
Quando mi arrampico a quaranta all’ora lungo Zepponami la Vespa farfuglia qualcosa ma riesco comunque ad avanzare e a vedere la cupola di Montefiascone. EST EST EST strillano i muri dei consorzi e delle cantine sociali, le pompe di benzina hanno nomi che non ho mai sentito e dopo quasi cento chilometri faccio il mio primo pieno. In lontananza trema lo specchio d’acqua di Bolsena; dopo Bracciano e Vico questo è il terzo lago che mi lascio alle spalle.
Si sale ancora, il sole non scalda e in un centro di bricolage cinese compro dei guanti da giardiniere per coprirmi un po’ le mani. Sono passate quasi cinque ore, il collo e la schiena in frantumi e non so se mi stordisce di più il vento o l’odore della benzina, ma intanto mancano solo sessanta chilometri. C’è stata Caprarola e poi Capranica, adesso Capraccia che mi spiana la strada per Orvieto fino a Capretta sulla lama della strada provinciale 104 che si impenna lungo il Monte Peglia. Caprini caprini caprini, poi, come un camoscio, il mio scooter salta fino al cucuzzolo, in quel ristorante non lontano da Cerqueto e, infine, da Perugia, che è il giro di boa prima del riposo di questo viaggio a due tempi, come quelli del mio motore.
Perugia – Roma
Lunedì. Alle otto del giorno dopo il cielo è ancora basso e si trattiene. Ho barattato i guanti da giardiniere con quelli di un amico e adesso ne ho un paio da motociclista collaudato ma troppo grandi. Ho tutta la giornata davanti per ritornare con il solo obbligo morale di non rifare la stessa strada dell’andata.
A Marsciano faccio il pieno e gonfio le gomme. Pontecane, Fratta Todina e poi il Tevere che da queste parti è ancora selvatico. All’imbocco della E45 un cartello discrimina il mio scooter per la sua cilindrata: saremmo troppo fiacchi per le sue strade ma fa niente. Per oltre sessanta chilometri siamo dei fuori legge su una stretta corsia che non è mai stata così d’emergenza. Ogni camion, ogni camper di olandesi che ci sorpassa è come una sberla di vento mortificante. Dopo un’ora circa la lancetta del tachimetro non fa che sbattere sul fondo come un sismografo impazzito e per di più frigna per dirmi di uscire da quel viadotto infernale.
All’altezza di Narni l’assecondo. Mai come oggi la Flaminia più che una consolare è consolante; con quella vocazione provinciale e popolare, srotolata tra le case dove la gente siede fuori per prendere il fresco e attraversa senza guardare. L’Aurelia, l’Appia, la Cassia e tutte le altre come lei con quei nomi severi ma segnate da negozi, alberi e curve che scandiscono il tempo, non come le superstrade con quegli orizzonti mobili e inarrivabili.
Faccio dei tratti in folle. Da qui in poi è una lunga discesa verso Roma tra colline rase e quelle di girasoli. È quasi ora di pranzo quando esce un po’ di sole che accende improvvisamente tutte le cromature della Vespa manco ci fosse un interruttore.
Passo Civita Castellana, la terra delle ceramiche, e il paesaggio cambia ancora: rotoballe, condomini mai finiti, fermate della corriera, sfasci e prostitute sul ciglio. Ce n’è una che aspetta seduta su un water buttato lì come fosse uno sgabello. Poi la piana del Tevere e la sagoma del monte Soratte che la sorprende. Un’ultima tappa in un’area di servizio improvvisata, più per liturgia che per bisogno. Ormai il sole ha preso coraggio e riscalda tutto, mi sfilo la giacca e il maglione legandoli al portapacchi. Quando riparto la Vespa slitta sul ghiaione e quasi cado.
Rignano, Castelnuovo, Riano, il Veio fino a Prima Porta e poi Labaro. È da oltre quaranta chilometri che la ferrovia regionale corre parallela alla mia strada, lambendola, fino a Piazzale Flaminio dove capitoleranno entrambe e in fondo anche io.