Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante reportage antropologico-letterario scritto da Daniela Preziosi sul quartiere di San Lorenzo.
«È una zona di Roma dove esisteva una sorta di cittadella della socialità. Fatta anche, oltre che dai residenti, dagli studenti e dalla loro voglia di uscire fuori dalle aule della Sapienza, dalle tante trattorie popolari, dalla mensa universitaria aperta agli abitanti, le prime librerie, l’Albergo dei poveri, i fuori sede e le loro differenti voci, le sedi delle mille sigle politiche, l’andare a prendere Paese sera e l’Unità a via dei Taurini, l’annusare l’odore del piombo e ricevere rotoli di carta da trasformare in tazebao con i primi pennarelli colorati o le vernici al nitro da far penzolare giù dai propilei piacentiniani».
È il quartiere San Lorenzo di Roma durante gli anni 70 nel racconto dell’architetto Antonello Sotgia, che se n’è andato in un brutto giorno di dicembre, dopo una vita da instancabile urbanista e attivista, una vita che ora aspetta di essere studiata.
Ma questa è solo una delle mille San Lorenzo ricostruite nel libro bello e dolente curato da Rosella De Salvia e Rolando Galluzzi e intitolato “San Lorenzo. Luoghi, storia e memorie” (Edizioni Ponte Sisto, 210 pp. 12 euro), una pubblicazione che, spiegano i due nell’introduzione, è «il risultato di un impegno collettivo, una raccolta di testimonianze e di punti di vista di autori in vario modo coinvolti nella vita di quartiere».
Prendono infatti la parola scrittori, artisti, artigiani, studenti, commercianti, casalinghe, giornalisti, abitanti o ex abitanti del quartiere, ormai esuli, per i quali San Lorenzo è «non un amore ma una religione» (Mario Sanfilippo), un paesaggio sentimentale, un luogo del destino.
Ne esce quello che a tutti gli effetti è un romanzo corale, con tante storie che si intrecciano, con fotografie di angoli ma anche edifici vecchi e nuovi – c’è tanta architettura in questo racconto, e non potrebbe essere diversamente – nel tempo trasformati riusati e ridestinati che si sovrappongono a quelli che erano prima. E sono tutti pezzi di vita di «quando il quartiere ancora s’apparteneva» (David Colantoni).
Ma, è la domanda cruciale, San Lorenzo si appartiene ancora? Nel volume non si trova una risposta univoca. La “gentrification” di fine secolo scorso, insieme a un piano regolatore che immaginava un Village romano, ha portato alla «trasformazione dell’uso degli spazi pubblici (piazze, slarghi, strade) da elementi di relazione con gli edifici in una sorta di grande arredo», dove «la fabbrica del sapere», l’Università La Sapienza, «ha finito, anche se non del tutto consapevolmente, con il costruire al proprio intorno, senza rinunciare contemporaneamente a improvvide forme di densificazione edilizia all’interno del proprio recinto, un grande luogo del consumo».
E insieme, non appaia una contraddizione perché non lo è affatto, ha contribuito alla trasformazione in «un quartiere non più di case ma di posti letto», come scrive l’architetto Franco Purini. Prima c’era «una cittadella diversissima» da quelle da cui era circondata,«dalla città del sapere (La Sapienza) a quella dell’assenza (il cimitero del Verano), a quella della guerra (il ministero dell’aeronautica con l’inquietante aquila posta sul tetto) a quella del dolore (il Policlinico Umberto I).
Tutto questo fino al ‘74 quando, praticamente senza accorgersene, «San Lorenzo si ritrovò una strada sulla testa»: è il doppio nastro d’asfalto sul quale si affaccia la finestra della casa del ragionier Fantozzi, la sopraelevata che «veniva a negare il quartiere, fino a cancellarlo», a trasformarlo in un luogo «sbagliato» , solo da attraversare, «dove non vale la pena neppure fermarsi». Nel libro c’è un ampio apparato fotografico tratto da archivi privati, ma in questo passaggio non si può fare a meno di pensare alle grandi tavole della bravissima pittrice romana Laura Federici.
Il libro naturalmente compone anche una mappa: storica, politica, sentimentale. Ma non fino in fondo. Perché se è vero che i curatori sono, nella loro vita di attivisti, gli organizzatori di passeggiate culturali per le vie del quartiere, è pure vero che questo volume si tiene molto distante da un’ operazione sistematica. Non è nel genius loci, si potrebbe dire. Ma la verità è che, seguendo l’insegnamento del maestro Herman Melville, la convinzione è che «le mappe mentono sempre, i veri posti non ci sono mai», e infatti «a San Lorenzo ti può capitare di perderti» perché «individui edilizi mantengono lo stesso nome che, nei ricordi e nell’immaginario cittadino, rimanda a una precedente attività produttiva anche se, con tutta evidenza, oggi sono altro», come scrive ancora Sotgia.
Ma certo non mancano abbondanti indicazioni per quello che si può cercare – e trovare – dentro un «territorio compatto, nettamente perimetrato (ferrovia, cimitero, università, ospedale/caserme); con un’identità popolare sia dalle origini (le case “di ringhiera”), che conserva la memoria del ‘43 (e per questo riveste un valore simbolico per l’intera città)». Del bombardamento degli alleati vengono fornite molte testimonianze.
Ma meglio di una mappa, è il vero consiglio che se ne ricava, è perdersi per le strade. Che è anche un modo per riscoprire memorie. Perché qui «anche i muri parlano», spiega l’ associazione di cittadini che assicura da anni i festeggiamenti del 25 aprile, festa della Liberazione: riporta i propri partigiani in piazza dell’Immacolata, tra gli altri Orfeo Mucci, organizza il trofeo di pugilato promosso dalla palestra popolare di Via dei Volsci, guida la via crucis laica fra le tante epigrafi dei resistenti, rinfrescandone ogni anno agli smemorati la biografia e le azioni.
I muri parlano, dicevamo. Come quello di Via dei Sardi dove cinque ragazze nel 2012 hanno dipinto le sagome delle 107 donne assassinate da uomini in quell’anno, lungo il muro esterno del Centro Sportivo Benedetto XV e con il beneplacito del municipio; lo hanno fatto il 24
novembre nella giornata mondiale della violenza sulle donne. L’effetto visivo è un’infinita straziante catena di bamboline di carta, tutte sorelle, tutte per mano, un unico femminicidio ininterrotto durato un intero anno.
San Lorenzo, del resto, è una città delle donne. Qui Simonetta Tosi, genetista del gruppo di Rita Levi Montalcini ma anche femminista del gruppo romano di Pompeo Magno, nel ‘74 affitta a titolo di ambulatorio medico il locale di Via dei Sabelli 100 che rapidamente diventa un punto di riferimento per il quartiere e per tutta la città per le donne che vogliono praticare il self-help, l’autovisita, e quelle che hanno bisogno di andare a Londra per praticare l’interruzione di gravidanza che in Italia è ancora vietata; oggi, si conclude così il racconto di Silvia Tozzi, il Fondo dell’Associazione Simonetta Tosi si trova al Centro di Documentazione Archivia alla Casa internazionale delle donne.
San Lorenzo – «dove la gente perbene passa solo dopo morta» – è anche il quartiere in cui Maria Montessori, sanlorenzina ma «cittadina del mondo» che nel 1906 impianta la sua prima «casa dei bambini», a via dei Marsi 58, «dov’è tutt’oggi funzionante», come scrive la pedagogista Paola Trabalzini.
Ancora una donna: è da qui che parte La Storia di Elsa Morante, dalla San Lorenzo operaia di fine Ottocento dove si installano le prima fabbriche e le prime botteghe; è a via dei Volsci che si consuma la violenza da cui nasce “Useppe”. E ancora una donna: Adamis Bravetti, partigiana, che ai fornai di piazza Bologna «consegnava i bollini falsi dei bravi falsari della Resistenza, per sfamare le persone che nascondeva nella sua piccola casa in via Stamira (inglesi, ebrei, politici)», come la ricorda Franca Raponi figlia del fioraio comunista Agostino.
Di persone e personaggi se ne incontrano tanti, fra le pagine. Per lo più protagonisti «di un mondo povero ma vero» (Sanfilippo). Quelli che hanno fatto di questo pezzo di Roma un angolo di culto, di mito e di pellegrinaggio. I due curatori De Salvia e Galluzzi li interrogano, sarebbe meglio dire li assecondano, li lasciano parlare alla propria maniera.
Così fanno con Paolo Pelati detto Tarzanetto, uno dei «ragazzi di vita» di Pier Paolo Pasolini, che usando il romanesco che il maestro «sognava sempre di parlare» racconta del Ristorante Pomidoro in Piazza dei Sanniti 46 dove si consumavano cene che a giovanotti malnutriti sembravano luculliane, seguite dalla «solita partitella di pallone». E «partitelle» sono anche quelle raccontate dal barbiere di via di
Porta Labicana, Pino Mancini, alla quali partecipa anche Alberto Ginulfi, futuro portiere della Roma che riuscirà nell’eroica impresa di parare un rigore nientemeno che a Pelé.
Ci si perde nella babele delle storie e delle voci sanlorenzine. Ma poi ci si ritrova. Alla fine i curatori sanno di aver raccolto molto, ma non tutto. «La sensazione che rimane è che ci sia ancora moltissimo da fare», scrivono, «che sia assolutamente necessario e non più procrastinabile promuovere ed accelerare il recupero scientifico delle testimonianze orali, scritte, fotografiche, sonore prima che esse vadano perdute per sempre». I due però, nella loro impresa, hanno provato con amore e cura a non lasciare fuori nessuno. Nessuno e niente: neanche un sampietrino, neanche un «nasone» – così si chiamano a Roma le fontanelle agli angoli delle strade – come quello di via del Volsci che è stato glitterato da spiritosa mano di artista.
Neanche gli oggetti più umili come i panni stesi ad asciugare nel ballatoio di una casa di ringhiera, «li guardi ti senti uno di loro, sei come loro», scrive Francesco Gallo, fotografo e scrittore, quello che forse più di tutti si avvicina all’anima di questo posto eterno ed in eterna trasformazione, «tutto qua dentro è come panni penzolanti in balia dei venti, appeso al filo dell’incertezza».