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Una sera d’inverno, al bar di S. Calisto

Una sera d’inverno, al bar di S. Calisto. Con questa scena-racconto si apre il nuovo libro di Paolo Morelli (“Né in cielo né in terra”) in uscita per Exorma. Morelli lo dedica in esergo ai tanti espatriati dalle vie del centro. Una sorta di pulizia etnico-economica che oggi perdura nel termine gentrification.



Morelli più di altri ha memoria di una Roma ormai scomparsa in cui il centro era popolare – e in chiave popolare la restituisce, interprete capitolino della linea malerbocelatiana. E nella casistica riporta pure questa liberale e libertaria disposizione del romano ad accettare che qualcuno, proveniente da fuori, venga a Roma a fare qualcosa. L’indeterminatezza fantasmatica delle presenze cittadine di Morelli alleggeriscono quel sentimento “capitale” che talvolta snatura tradizione e contemporaneità romana senza fare assurgere la città nella categoria delle metropoli. E talvolta facendo dubitare persino della realtà di Roma. I fantasmi seguono tracce concrete ma accendono situazioni paradossali da cui l’autore si lascia condurre per mano in una via picaresca che ha radici ben più antiche della novecentesca epica dei “semplici”. Tra risse e telefonate notturne.

Una sera d’inverno, al bar di S. Calisto
di Polo Morelli

Era una sera d’inverno, al bar di S. Calisto. Con Armando ci siamo incontrati dopo un sacco di tempo. Per lui e per me era un periodo duro e non c’entra solo l’età. Lui viveva ancora al rione, in una specie di ripostiglio senza luce né acqua, era appena uscito da un paio d’anni di mutismo volontario. Due bottiglie di vino rosso ci siamo scolati, nonostante questo, però, dopo la fretta dell’inizio le parole non uscivano più fuori. Seduti a un tavolino centrale, circondati dalla confusione, ognuno per sé ci siamo accorti che prima per la maggior parte le chiacchiere partivano da qualcun altro, dagli amici che ora non c’erano più, come forse è normale a questa età, forse a noi era successo un po’ presto ma comunque ora solo ce ne accorgevamo. Prima parlavamo tanto e di tutto, però partivamo da lì, dai commenti e dicerie su un amico o l’altro. Si vede che non è tempo ancora di ricordi. Ci siamo lasciati e sono tornato a casa. Subito mi sono buttato a dormire, e da lì è cominciato un sogno che è durato mesi, se così si può dire. Dormivo quasi tutto il tempo e ogni volta ricominciava sempre lo stesso sogno, certo con variazioni ma neanche troppe. Erano sempre sonni profondissimi, sprofondavo come in una di quelle giornate in cui si sente il bisogno di sentirsi stupidi. Non c’era situazione o alimentazione che variasse il programma, sempre la stessa storia più o meno, lunga e zeppa di cose, insomma un’ossessione, un delirio.

Del resto ai sogni non si comanda, lì non è mica questione di volontà. Io prima non ero uno che si ricorda i sogni, ora per forza me lo ricordavo sempre di più. Da un certo punto in poi ho deciso di reagire, ho preso nota al risveglio e certe volte anche durante la notte, riempiendo taccuini su taccuini, solo per cercare di capire che mi stava succedendo. Ci ho messo mesi a dargli un senso, nel frattempo però mi rasserenavo. Man mano che lo scrivevo mi sono accorto che il sogno compariva di meno, più sfuocato e meno lineare, finché è sparito e ho ricominciato a sognare a caso, come capita a tutti. Quello che segue ne è il resoconto. Mi accorgo che devo aggiungere qualcosa che spieghi il mio periodo duro, poco dopo aver compiuto i cinquant’anni. Dopo una gioventù senza fine m’ero ritrovato spiantato e quasi anziano, e non sapevo fare niente. Non sapevo dove sbattere la testa. Poi mi è capitato di fare il ghostwriter, per anni ho scritto migliaia di pagine per artisti, professionisti, politici e scrittori addirittura, e alla fine non ce l’ho fatta più.

All’inizio pensavo che fosse il mio lavoro ideale, quello che cercavo da sempre, ero contento di restare nell’ombra quando usciva il libro o l’articolo, pensavo d’aver trovato il mio posto. Invece da un giorno all’altro non ero più capace di niente. C’è stato un crollo nervoso, solo lì ho capito quanto ero stanco. Scrivere al posto di altri non è innocuo come si crede, può essere molto pericoloso, per me almeno è stato così. Io comunque lo sconsiglio, perché a lungo andare si può perdere il proprio posto, e forse anche per questo racconto il sogno, per mettere in guardia dai pericoli di quel mestiere. Raccontare i sogni è una cosa assurda, anche fuori moda forse. È come nei racconti di montagna, devi per forza inventare se vuoi riferire un briciolo delle fatiche, emozioni, gioie o tremende paure.

Ultimamente ho letto un libro in cui uno scalatore molto famoso si attardava, faceva buio pesto e per tornare alla base senza sfracellarsi raccoglieva delle lucciole, se le metteva sulle mani e così andava avanti… In certe situazioni in testa succede un subbuglio, e quando ne sei fuori le parole servono a poco, per diritto dovrebbe essere concesso di inventare un po’ nelle situazioni estreme. Va un po’ meglio con i sogni ricorrenti, come è successo a me. È chiaro che i personaggi di questa storia hanno qualche rapporto con persone vive, morte o scampate per miracolo ad ambedue le condizioni. I fatti sono immaginari, i luoghi no, esistono quasi tutti e si possono visitare. Per quanto riguarda i reati o presunti tali, pochi e di scarsa rilevanza più che altro teppistica, sono anch’essi immaginari e comunque prescritti.

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Paolo Morelli (Roma, 1951), è nato e vive a Roma. Ha pubblicato “Classifica di notti gagliarde” (Jouvence, 2006), “Caccia al Cristo” (Derive Approdi, 2010).
Ha pubblicato inoltre “Vademecum per perdersi in montagna” nel 2003, “Er ciuanghezzù (ner paese der Gnente)” nel 2004 e “Il trasloco” nel 2010 tutti per la Nottetempo.