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flânerie e viaggetti

Subaugusta: una nave salpa carica di etnie

A Subaugusta tra etnie, traffico, roma littoria e palazzoni, il punto d’inizio di una Roma di semafori e negozi.

A ben vedere la sindrome dello specchietto retrovisore, di cui anni fa lessi in un articolo di Beniamino Placido, trova a Roma esercizi molto fantasiosi. Anni fa accompagnavo per l’Opera Nomadi dei bambini a scuola. Era un progetto di alfabetizzazione voluto dal Comune. Mi occupavo di un gruppo parcheggiato in roulotte sontuose nell’ex-Mattatoio. Erano kalderasha, un sottogruppo dall’aria regale e cromosomi, a guardare i profili dei loro bambini e delle loro donne, della miglior avvenenza zigana.

Ma, sometimes, andavo pure a portare ragazzi – rom per lo più, se ricordo bene, napoletani – de La Barbuta (Ciampino) nelle scuole intorno a Subaugusta. Partivamo con un pulmino giallo e via verso aule e cancelli. Nessuno di noi consapevole di quanto sarebbe dovuto risultare penoso per loro quel varcare ingressi per stiparsi in aule “sorvegliate”. Non posso dire di non averne viste di tutti i colori. Abbastanza, però, per non sollecitarmi mai troppo alla facile adesione alla strada del razzismo.

Una delle cose che ricordo più vividamente è quando dei genitori (con pedigree: galeotti, prostitute ecc.) si battevano con il coltello tra i denti per evitare che i propri figlioli finissero per essere traviati dalla vicinanza dei Rom. Protestavano, si inalberavano perché no, dicevano, gli zingari avrebbero dato il cattivo esempio ai loro pargoli. Dei loro mestieri seppi dalle insegnanti. Allora ero troppo preoccupato dall’evitare (che fossero evitati scandali). Gran brutta cosa cercare qualcuno alle spalle di cui poter dire male o peggio di sé. Una sindrome diffusa. Ben oltre le categorie delle etnie. Diciamo che la guerra continua facilmente per le vie della denigrazione e dell’esautoramento sociali.

Mi conturba certe volte pensare a che effetto debba fare a degli stranieri questo mondo assiepato di case. Una sull’altra, una al fianco dell’altra. Piani su piani che guardano sotto la via Tuscolana con senso di alienazione. Le case non sono le persone. Penso, ad esempio a questi studenti americani della “Iowa State University Rome Program in Architecture” che esplorano questa periferia romana con aria saggistica. Cosa e come concluderanno la loro perlustrazione?

E’ sorprendente come un punto di vista possa far cambiare ogni visione della città. Ma diverso deve essere pensare a quelli arrivati a colonizzare tutte le strade laterali, da un mondo indiano sconosciuto e forse dissimile. Stipati nei loro phone point tra dvd e schede telefoniche, frusti computer videoconnessi con le loro Mumbai, Colombo.

L’idea concettuale del Tuscolano – Quadraro a parte (di cui è giusto parlare fuorisacco) – è “più (vicini) siamo meglio stiamo”. Un’idea degli architetti? Forse. Forse la stessa da cui è nato Corviale. Ma forse un’idea cara anche a chi si abitua a vivere così e mai cambierebbe. E toccherebbe adesso particolare di quel tipico Tuscolano Pride per cui andare via ha la stessa forza di un emigrazione a valigia di cartone e nave transoceanica. Quelli del Tuscolano non ne hanno bisogno. Basta (e lo fanno già da piccoli) saltare su una metro e sei già nella tua America. La loro barca è grande poi. E accogliente. Ha delle regole sì, dei biglietti di ingresso, delle rotte di navigazione ma ci si può salire su e salpare. L’importante è vogare e non interrompere la corsa del remo di un altro.
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Subaugusta è un po’ un porto sicuro per quando arrivi dai Castelli. Un cartellone pubblicitario che ti dice che sei sulla strada giusta, che il Grand Canyon può avere inizio. Ti invita al Gay Village o a provare una nuova auto, una vecchia assicurazione, una banca seminuova. Un manifesto ti indica una cosa da fare e insieme una via per cui andare. Da questo momento in poi Roma è una lunga interminabile sequela di semafori e tu che ingrani prima e seconda a ripetizione.

Se sei a piedi ti puoi muovere indisturbato tra il punto d’incontro antico del bar Nori, negozi di animali e agricoltura che non immagineresti in questo spartitraffico cementizio, pizzerie convenzionali o non convenzionali. Intorno palazzine più belle di come ti aspetteresti e pompe di benzina con display digitali. Tutt’intorno la Roma littoria ora “municipalizzata” e il muro del Centro Sperimentale. Uno slargo cosmico dove ognuno ha il suo ruolo: un bus lunghissimo, una minicar, un furgone, un passante e persino tu.

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Da fare

Approfitto di questo spazio per consigliare qualche luogo di pausa:
Sforno, una pizzeria da primato (una delle migliori di Roma) via Statilio Ottato, 110/116 tel. 06 7154 6118
L’AltroBallerino (anche se ci ho mangiato meglio anni fa) largo Appio Claudio, 346 – tel. 06 71584807
Nel breve una sosta la merita anche Meo Pinelli – piazza di Cinecittà, 56 – tel. 06 710 8564.

Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).