Toti Scaloja. La sua Roma, le sue tele, i suoi versi. In una carrellata d’immagini e in un’intervista di anni fa.
La carrellata d’immagini che segue viene dalla personale che fu dedicata all’artista nel centenario della nascita (al Macro di Roma in via Nizza fino al 6 settembre 2015). “100SCIALOJA. Azione e Pensiero”, oltre a celebrare l’artista nato a Roma nel 1914 e morto nella stessa città nel 1998 ha reso visibile la sua personale collezione messa insieme con la moglie Gabriella Drudi scomparsa solo pochi mesi dopo il compagno di una vita.
Questa intervista a Toti Scialoja è uscita su “l’Adige” il 10 febbraio 1997 con il titolo “Io e la mia pittura figli della storia” e, contemporaneamente, su “Storie” n. 24 con il titolo “Di che segno scrivo”. La ripubblico con qualche piccola variante.
Ma nel ripubblicarla mi piace ricondurre alla memoria cose non entrate nella sbobinatura di allora. Immagini ed episodi collaterali. Ad esempio ricordo che prima di intervistarlo avevo fatto leggere al Maestro, con la timidezza di cui ero capace allora e ancora adesso, alcuni racconti allora inediti (a quei tempi avevo pubblicato solo su riviste). Gli erano piaciuti e li aveva paragonati a quelli di Kleist che, allora, non avevo letto (e che mi peritai di acquistare in quegli stessi giorni). E ad Hoffmann, che invece conoscevo. Ricordo che tutta l’intervista era stata affettuosamente assistita dalla moglie che ci aveva accompagnato tra il salone di accoglienza e la sala di lavoro dedicata alla pittura del suo grande studio romano. Quella della Gabriella Drudi – pittrice e poetessa anche lei – era stata una presenza discreta. Un’assistenza laterale. Mai invasiva. Che ci aveva lasciato spesso soli salvo intervenire per semplificare alcuni spostamenti nell’appartamento. Qualche tempo dopo o nella stessa occasione chiesi a Scialoja una poesia che fu poi pubblicata sempre in un numero della rivista “Storie”. La foto, invece, la scattai dall’interno della sua casa verso l’esterno. La resa è quella che è.
Toti Scialoja, vive a Santa Maria in Monticelli ma lavora dall’altro lato di via Cairoli, nel cuore del Ghetto, una Roma chiassosa e popolare. Il suo studio di pittura è in un piano alto di un vecchio palazzo signorile davanti alla Fontana delle Tartarughe (quelle vere, più volte trafugate e ritrovate, sono ora ai Musei Capitolini; una fontana-copia è a San Francisco) a piazza Mattei (dal nome della potente famiglia del patriziato romano) un po’ discosto dalla versione popolare del quartiere ebraico. Sopra l’arco che passo emozionato il nome familiare: COSTAGUTI (quello della casata dei marchesi Afan De Rivera Costaguti cui appartiene). La fatica di trovare la strada poi sono su. Un finto lucernario illumina un ingresso a pareti alte dove sono stipati libri in una biblioteca bianca. Poi una stanza luminosa con una portafinestra da cui entra una luce che si posa sulla poltrona. Al fianco c’è un piccolo tavolo in cui entra a fatica una macchina da scrivere a tasti meccanici che sembra star lì più che per il vezzo d’antan per la brevità esatta e glabra della sua scrittura. Che siano filastrocche o versi “adulti”. Tutti improntati a un compiuto e preciso gesto, incancellabile al di là del labor limae. Forse è questo il primo nesso “pittura/scrittura”. Poco più in qua un gruppo di piante che sembra si siamo radunate per ascoltare noi che sediamo su dei divani larghi con una seduta ampia ed uno schienale distante. Iniziamo col parlare del lavoro di artigianato, la fatica di tutti i giorni, i ritmi della sua pittura, pomeridiana. Scialoja – un’aria compassata e calma indossa una camicia rosa pallido e un pantalone verde scuro, nessuno schizzo di vernice addosso come in molte foto che lo ritraggono a lavoro – non è solo pittore di fama internazionale ma poeta apprezzato. Due modi di dire arte. Nello studio del Ghetto vuol dire forse due stanze, due mezzi diversi.
In quale legame di parentela vede i due modi espressivi?
Sono due cose diversissime, due identità ignote l’una all’altra. Una persona in due artisti e un artista in due persone. Sono due mezzi espressivi diversi: quello della pittura che si forma su forme, linee e colori che creano uno spazio inesistente, virtuale e la poesia che si fonda sulla parola dando ad essa un peso diverso da quello delle conversazioni.
E’ vero altresì che ci sono artisti di parole, molto visionari o semplicemente visivi?
L’esattezza descrittiva, a volte una ossessione descrittiva, addirittura, ma che usa la parola. I mezzi sono incomunicabili.
Le sarà certamente capitato d’interrogarsi o essere interrogato sul nesso tra scrittura e pittura nel suo lavoro?
Sì, in genere rispondo che come nella pittura cerco una spazialità astratta, così nella poesia io mi fondo su una sonorità che rende astratte le parole.. Spazialità e sonorità sono i due sfondi.
In che misura è stato necessario per lei il rapporto con un maestro?
L’arte si fa sull’arte. La pittura poi si fonda sull’idea del maestro. Tutta la pittura rinascimentale si edifica attorno al rapporto con il maestro a cui si cerca di assomigliare. L’arte non deve avere originalità – un concetto da basso Romanticismo – se no si confonderebbe con la moda. No, no, l’arte deve portare avanti un discorso già iniziato, con umiltà, con passione. L’originalità nasce spontanea perché ogni essere umano è diverso dall’altro.
Lei il lavoro di quale maestro sente di star proseguendo?
Ah, io di maestri ne ho avuti tanti. Van Gogh che studiavo da ragazzo nelle quadricromie; da giovane ho amato Ranzoni, Renoir, questi romantici teneri. Poi sono passato all’amore per Soutine, Mafai, il tonalismo di Morandi, l’adorazione del cubismo analitico di Picasso e di Braque come modello di pensiero sullo spazio. Poi i miei amici americani.
Perché i libri di storia dell’arte sembrano imprigionati dalle correnti, dagli ismi?
Come diceva Leonardo l’arte è fatto mentale, è pensiero. Non pensiero logico, ma intuitivo. Soffri e scegli, sei critico prima che creatore. Queste sono tutte linee di pensiero come quelle della filosofia. Ci sono tante strade. Ce n’è una maestra. Io credo in un movimento che nasce dall’impressionismo e passa per Cezanne, l’abolizione della terza dimensione, abolizione del volume e della plasticità fino all’astrazione. Quindi uno spazio puramente ritmico, bidimensionale, che non vuol dire piatto. L’abolizione della prospettiva è l’abolizione di un pensiero antico, come dire ‘chi crede oggi alla trascendenza?’. La filosofia dell’oggi crede all’immanenza. Lo spazio dell’arte di oggi è superficie su cui si iscrive il presente che crede nella vita come l’unico significato dell’esserci. Non crede nella prospettiva che è allontanamento verso sognati, perduti regni da recuperare.
Scialoja, artisticamente si forma nella Roma delle gallerie – in particolare la Galleria della Cometa guidata da Libero De Libero e Corrado Cagli per la volontà della Contessa Mimì Pecci-Blunt che sceglie nome e araldica all’insegna della casa di famiglia e dell’avo papa Leone XIII. Siamo a metà degli anni Trenta e il giovane pittore si incontra lì dove si incontrano gli altri artefici del tonalismo romano, via della Tribuna di Tor de’ Specchi, 18. Lì le prime attestazioni di stima giovanili, figurative per lo più, prima della grande svolta astratta.
Due mostre italiane a Genova e Torino ma il successo arriva con New York e il 1956.
All’arrivo nella Capitale è suggestionato dalla visione di una città “parigina” a Prati, quella dei boulevard alla Cola di Rienzo che inizialmente lo accolgono. La poesia è la prima strada ma un poeta più adulto e formato lo scoraggia. Scialoja si rifugia nella pittura non sapendo dire no all’espressione artistica. Ma la poesia rimane sottotraccia e trova maturità molto tempo dopo consacrata da Calvino che rivede in Scialoja quella forza nonsensica anglosassone che mancava alla nostra tradizione e se ne compiace. Anche la poesia “filastrocca” per bambini fa di Scialoja un maestro indiscusso che aveva già col bozzetto e la scenografia percorso teatri e quinte RAI (“Fantaghirò”, solo per citare un programma).
Il percorso di ricerca di ricerca della scrittura è un’avventura dello spirito aperta a tutti?
Io penso che per scrivere poesie bisogna essere poeti che vuol dire avere un’anima poetica, uno spirito disinteressato, assoluto, disperato, puro o anche impuro ma che da questa impurità ne tragga un significato simbolico della disperazione dell’esistere dell’ ‘esserci per la morte’ come dice Heidegger. E questi sono pochi. Quanti poeti sono rimasti dell’Ottocento? Foscolo, Leopardi – sublime. Tutta la pletora dei Berchet, Aleardi: cancellati. Qualche poesiola del Carducci, D’Annunzio giovanile – bah, molto estetizzante. Pascoli: troppo compiaciutamente lacrimoso, quasi una macchina per far piangere ma di una lingua moderna nella sua conversatività linguistica. Quindi: quanti sono? Quattro? Quante migliaia di poeti hanno scritto nell’Ottocento, maniaci, pedanti, dilettanti?
Il rapporto maestro-discepolo è evidente in pittura nella sua linea trasmissiva quantomeno nella formazione. E’ più difficile dirsi, invece, discepolo di un poeta; che può dirti “scrivi così”, “metti questa parola vicina a quell’altra”?
In poesia non c’è la stessa idea di ‘scuola’ però i grandi poeti sono quelli che creano una situazione nuova, inattesa, una consapevolezza diversa, una sfumatura lontana da altre consapevolezze. Se tu hai letto da giovane tutto Eliot e i “Cantos” di Pound, Laforgue, Baudelaire, e i simbolisti francesi, Mallarmè, Rimbaud, Valery è chiaro che non potrai scrivere una poesia come la scriveva Prati, Aleardi. Anche Sandro Penna, un poeta che amo molto, certo nasce da Saba, ma è consapevole di Eliot, dei simbolisti francesi anche se non emerge.
E lei di chi si sente consapevole in poesia?
Io mi sento sfacciatamente consapevole della poesia inglese non-sensical di Lewis Carroll e di Lear, libri conosciuti come per l’infanzia ma che sono in grado di creare l’infanzia in chi legge, più che libri per bambini.
Cosa la suggestiona del non-sense?
La trasformazione della parola banalmente comunicativa in un guizzo, un sogno, un’assurdità.
Che sembra però premiare l’intelligenza più che la capacità di emozionarsi?
Sono due aspetti che si possono dividere? Non credo. La vera sensibilità – non il sensibilismo – si fonda sull’intelligenza. L’intelligente capisce tutto e lo passa attraverso il vaglio della sensibilità umana. L’intelligenza è carica di pietas. Il Vangelo è un libro d’intelligenza e di sensibilità. Nel non-sense la parola vive la sua infanzia, pronta a significare qualcosa ma nel “prima che significhi”. Il suo uso come suono viene prima del suo uso come significato. Un giocare con le parole astraendo dalle parole un significato magico, poetico, astratto. Io scrivo le poesie perché vengono da sé, quando mi nascono le accetto. Alle volte faccio correzioni, alle volte le strappo ma non è che stia lì a cercarle accanitamente.
Come giudica l’assenza di una poesia d’impegno civile in un paese che sembra languire in una immunodeficienza così strutturale?
La poesia è canto del cuore che mal si unisce alla retorica e l’impegno civile lo diventa spesso. Siamo un popolo di analfabeti. La scuola funziona poco e male con professori sottopagati che non riescono ad aggiornarsi. Nessuno è abituato a leggere – l’80% degli italiani non compra neanche un libro l’anno – e come quando si è piccoli, se non parli entro i dieci anni non parlerai più. Per leggere ci vuole un metodo, una pazienza che se non eserciti non avrai più. La situazione non è allegra. In Italia, un libro di poesia quando ha successo vende mille copie.. Ed era così anche prima: Montale, “Le Occasioni”, trecento-cinquecento copie, tutto qui.
Come si potrebbe alzare il tasso di lettura?
Bisognerebbe cominciare dalla scuola: cancellare il metodo Montessori che è una delle cose più criminali che l’uomo abbia inventato. Insegna che la fantasia appartiene all’infanzia e non è vero, anche l’infanzia la deve imparare la fantasia. Il bambino chiede di giocare perché da solo non può. Non contrastare i bambini, dargli sempre ragione, nessuna regola, nessun dovere solo piaceri. Se vuole rompere la casa che lo faccia. Questi ‘bambini padreterni’ scoprono poi un mondo che non permette di essere padreterni ed eccoli che si rifugiano nella droga. Il mondo che li aspetta non è libero: devi lavorare, incontrare il prossimo anche se non lo vuoi. Dobbiamo tornare alla serietà, alla disciplina e allora forse tra ottant’anni qualcosa cambierà, ma sarà forse tardi e sarà un mondo a bottoncini.
Scialoja ha esposto nelle più grandi gallerie, di solito dopo aver preparato i colori e le tele alle undici della mattina, dipinge di pomeriggio, dalle due alle cinque, in un gande stanzone attiguo al salone in cui avviene il colloquio. Tre scalini a scendere e delle tele fissate a terra con il nastro adesivo, circondate da quattro pareti di cartone alte al punto da salvare la stanza dagli schizzi. Una pittura fisica, un depositarsi di colori colmo di energia. Continuiamo a parlare passando le stanze e le grandi tele appena dipinte. Le misure dell’impasto materico che diventerà colore e gesto che lo proietta in terra.
Ci confida la grande crisi del mercato d’arte. “Prima c’era la galleria che mi passava uno stipendio mensile, poi insegnavo all’Accademia. Noi dipendiamo dalle aste. Io ho un mio prezzo base che può variare. Ora è in un momento di calo”. Ricorda il difficile percorso della ricerca e dell’apprendistato: “Quando ero giovanissimo i quadri non si vendevano, si regalavano. C’era solo una galleria d’arte contemporanea ‘Lo Zodiaco’ poi aprirono ‘Il Secolo’ a via Veneto. Era tutto un dare e un niente avere. Ci si arrangiava”.
Da sapere
Fondazione Toti Scialoja
Via di Santa Maria in Monticelli, 67 – tel. 06 6830 0916
www.fondazionetotiscialoja.it