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flânerie e viaggetti

Via Appia: un’antologia

Una piccola antologia letteraria della via Appia ad uso di lenti passeggiatori.




Uscito dalla grande Roma, Ariccia mi accolse in un alloggio modesto; era con me il Retore Eliodoro, il più dotto fra i Greci; di lì a Forappio, pieno zeppo di barcaioli e osti imbroglioni. Questo tratto, pigri, lo dividemmo in due tappe, ma i viaggiatori più rapidi di noi lo fanno in una: la via Appia però è meno faticosa per chi viaggia lentamente”.

(Orazio – “Satire”)

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C’è un luogo, prima della città, dove la grande Via Appia inizia e dove Cibele lava il suo dolore nelle acque dell’Almo, dimenticandosi Ida.

(Stazio – “Silvae”)

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Capita qui l’occasione di parlarvi della via Appia, cioè del più grande, del più bello e del più stimabile monumento che ci resta dell’antichità; poiché, oltre alla sorprendente grandezza dell’impresa, essa non aveva per oggetto che l’utilità pubblica, credo non si debba esitare a mettere quest’opera al disopra di tuttociò che hanno fatto i Romani o altre nazioni antiche, ad eccezione di alcune opere intraprese in Egitto, in Caldea, e soprattutto in Cina per la condottura delle acque, cui si può aggiungere il canale di Languedoc. La via, che comincia dalla porta Capena, corre diritta per la lunghezza di trecento cinquanta miglia da Roma a Capua e a Brindisi, e costituiva la grande strada verso la Grecia e l’Oriente.

Appio longarum territur regina viarum.

Per costruirla, fu scavata una trincea della larghezza della via sino a trovare il sodo, e questa fu colmata di un massiccio di pietrame e di calce viva, che formò così il piano stradale, ricoperto poi da pietre squadrate, di grandezza e di figura ineguali, ma così perfettamente dure che non vi è ancora un solco, e così ben congiunte che nei punti dove non sono state ancora spezzate agli orli, sarebbe ben difficile strapparne una dal mezzo con istrumenti di ferro. Dai due lati della via eran banchi di pietra dura, ad uso dei pedoni, e formanti al tempo stesso due parapetti e due sostegni per impedire ai manufatti di cedere.

Ad ogni cento passi si trovava alternativamente un banco per sedere e un paracarro per montare a cavallo. Finalmente essa era fiancheggiata di tratto in tratto da mausolei, da tombe o da altri edifici pubblici, di cui si vedono ancora le rovine. Questa via è così stretta, nei punti dove i due banchi sussistono ancora, che due delle nostre grandi vetture non passerebbero comodamente; dalla qual cosa possiamo conchiudere che le sale dei cocchi romani erano molto più strette delle nostre.

Da quindici o sedici secoli non solo non si mantiene più questa via, ma, al contrario, la si distrugge per quanto si può. I contadini poveri dei villaggi circostanti l’hanno squamata come un carpo, e hanno tolto in parecchi punti le grandi pietre dure tanto dai banchi che dal lastricato. Ciò da occasione ai lamenti amari da parte de’ viaggiatori contro la durezza della povera Via Appia, la quale non ha colpa; infatti nei punti dove essa non è stata intaccata, è tuttora piana e intera come un pavimento di legno e molto sdrucciolevole pei cavalli, i quali a forza di battere quelle larghe pietre le hanno quasi lucidate…

(Charles de Brosses – “Lettere familiari”)

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Oggi sono stato alla Ninfa Egeria, poi alle Terme di Caracalla e sulla via Appia a vedere le tombe ruinate e quella meglio conservata di Cecilia Metella, che da un giusto concetto della solidità dell’arte muraria. Questi uomini lavoravano per l’eternità ed avevano calcolato tutto, meno la ferocia devastatrice di coloro che son venuti dopo ed innanzi ai quali tutto doveva cedere. Come ardentemente ho desiderato oggi che tu fossi qui! Gli avanzi dei grandi acquedotti lasciano un’impressione enorme. Che scopo nobile e bello quello di donare a tutto un popolo l’acqua, ed in una forma prodigiosa! Siamo passati davanti al Colosseo che già annottava. Quando si son vedute tante cose sembra di nuovo piccolo, eppure è così grande che l’anima non ne può contenere l’immagine. Si ricorda più piccolo, si torna indietro a guardarlo e si trova più grande della prima volta.

(J.W. Goethe – “Viaggio in Italia”)

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Ammirabile solitudine della campagna di Roma; strano l’effetto delle rovine nell’immenso silenzio. Come descrivere questa sensazione? Tre ore di emozione unica in cui il senso del rispetto aveva la gran parte… la campagna di Roma attraversata dai lunghi frammenti degli acquedotti è per me la tragedia più sublime”.

(Stendhal – Viaggio in Italia)

Questa chiesetta (Domine Quo Vadis? NdR), a mano sinistra sulla via Appia, è nota con tre nomi: Santa Maria delle Palme, Santa Maria delle Piante e Domine quo vadis. Qualche autore ritiene che sia costruita sull’area del famoso tempio di Marte. In uno di quei momenti di debolezza che san Paolo non gli perdonerà mai, san Pietro fuggì dalle persecuzioni che lo attendevano a Roma. Qui giunto, gli apparve Gesù, con la croce sulle spalle. A questa vista impreveduta, l’Apostolo gridò: ” Domine quo vadis? “. La chiesetta fu rifatta interamente da Clemente viti. La facciata è del 1737.

(Stendhal – “Passeggiate romane”)




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Il velo della sera scende sui campi,
gli ultimi raggi di sole ondeggiano esitanti
e posano sulla via Appia.
Da lontano vedo gruppi di pellegrini
che si muovono in lunghi cortei,
attraversano la tranquilla campagna,
silenziosi come camminassero degli spiriti;
mantelli marroni lacerati
pendono dai corpi giganteschi,
portano sul capo edera e alloro,
così si dirigono in fila
acquedotti di antichi imperatori,
attraversando valli e monti,
archi, pilastri, folla foltissima.
Sono come delle coorti che affrante dalla battaglia
tornano in un corteo trionfale dai campi dell’ Asia
nell’eterna Roma.
Tutto peregrina verso di te, o Roma. Le montagne, le rovine, i monti:
tutti tornano verso Roma.
Ascolta, le campane suonano l’ Ave Maria;
all’intorno regna un silenzio di anime
e il mio cuore sussulta
nelle sue profondità e torna a Roma.

(Gregorovius – Poesie)

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Volli io visitare la Fontana Egeria. Fui sorpreso dalla notte; e per restituirmi sulla via Appia mi diressi al di sopra della tomba di Cecilia Metella, capo lavoro di grandezza e d’eleganza

(Chateaubriand – I Martiri o il trionfo della religione christiana)

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Intanto giungemmo alla Porta Capena, dalla quale usciva la celebrata via Appia.
Guardarono primieramente gli spettri la porta e le due contigue torri, e l’una e l’altra
formate, siccome è manifesto, con frammenti di tombe antiche. Quand’ecco sentii
gemere l’aura di sommesse querele, e però dissi a Tullio con ansietà: “Perché questo
lamento?”. Ed egli rispose: “Si dolgono veggendo distrutti i loro monumenti”. Io allora
per mostrarmi consapevole delle consuetudini antiche, subitamente soggiunsi: “Ben so
che dall’una e dall’altra parte di questa via consolare furono sepolcri innumerevoli” […]
Intanto gli spettri contemplavano sconsolati la squallida campagna. A me si rivolgeano
di poi quasi chiedendo ragione di tanti oltraggi, e però favellai in tale sentenza: “Noi
pure, i quali ora viviamo su queste ruine, le miriamo deplorandole quasi spettacolo di
crudele devastazione. Anzi quanto a noi le custodiamo come venerevoli, ma non
possiamo, al certo, superando le forze della nostra natura, riprodurre le cose distrutte.
Che se le ingiurie del fato ci hanno privi di tanti maravigliosi edifizi vostri, ci hanno
però lasciata una brama ardente di considerarne ogni avanzo e di scoprirlo. Quindi
apriamo spaziosamente la terra desiderosi di ritrovare in quella le sepolte vostre
magnificenze, e ritrovandole con gioia le contempliamo, temperata di mestizia per la
dolce memoria di voi. E questa nostra sollecitudine è giunta a scoprire delubri, e terme,
ed urne, e reggie, e perfino le intiere città, siccome a’ tempi miei di due nella Magna
Grecia è avvenuto. Che se vi fosse noto, o magnanimi intelletti, con quanto dispendio
intraprendiamo queste opere, con quanto studio illustriamo gli antichi monumenti, con
quanta cura li serbiamo, certo invece di dolervi di noi ci lodereste con gratitudine
corrispondente. Perocché apriamo le vostre urne palpitando, e in quelle ritrovando
monili, o anelli, o corredo muliebre, o nelle ceneri vostre le ampolle, in cui, per quanto
è fama, grondarono le pietose lagrime de’ riti funerei, o lucerne, o lembo di tela
incombustibile nella quale furono arse le vostre membra, tutto noi serbiamo con gelosa
custodia; e qualunque moneta, ed arma, e suppellettile, o segno delle consuetudini
vostre, è per noi materia preziosa di erudite congetture.

(Alessandro Verri – Le notti romane)




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Esiste una severa torre di altri tempi,
Salda come una fortezza, con la sua difesa di pietra,
Simile a quelle che frustrano la forza di un esercito,
Anche se si ergono con metà soltanto dei loro bastioni,
E con l’edera di duemila anni,
La ghirlanda dell’Eternità, dove ondeggiano
Le verdi foglie gettate dal Tempo ovunque;
Dov’era questa torre forte? Nella sua caverna
quale tesoro giace così rinchiuso, così nascosto?
La tomba di una donna.

(Byron – Pellegrinaggio del cavaliere Aroldo – 1812-1813)

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Lo si sente sulla Via Appia, dove, pur essendo arrivato nel tardo pomeriggio, mi sentivo, passeggiando, con il cuore talmente pieno che in quel momento sarei potuto morire.

(Albert Camus – “Taccuini”)

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Via Appia

Eterna sera agli alberi fuggiti
nel silenzio: la strada fredda accora
i morti in terra verde: di svaniti
suoni nell’aria armoniosa odora

vento dorato il mare dei cipressi.
Calma specchiata di monti la sera
immagina giardini nei recessi
tristi dell’ acqua: erbosa primavera

stringe la terra in uno scoglio vivo.
Cade nel sonno docile la pena
dei monti addormentati sulla riva:
sopra la pace luminosa arena.

Nella memoria li depone il bianco
vento del mare: ad alba solitaria
passano in sogno a non toccarsi: banco
del mattino la ghiaia fredda d’aria.

Amore della vita

Io vedo i grandi alberi della sera
che innalzano il cielo dei boulevards,
le carrozze di Roma che alle tombe
dell’Appia antica portano la luna.

Tutto di noi gran tempo ebbe la morte.

Pure, lunga la via fu alla sera
di sguardi ad ogni casa, e oltre il cielo,
alle luci sorgenti ai campanili
ai nomi azzurri delle insegne, il cuore
mai più risponderà?

Oh, tra i rami grondanti di case e cielo
il cielo dei boulevards,
cielo chiaro di rondini!

O sera umana di noi raccolti
uomini stanchi uomini buoni,
il nostro dolce parlare
nel mondo senza paura.

Tornerà tornerà,
d’un balzo il cuore
desto
avrà parole?
Chiamerà le cose, le luci, i vivi?

I morti, i vinti, chi li desterà?

(Alfonso Gatto – “Poesie”)

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Prendiamo a destra in salita una strada molto stretta, c’è un muro che corre a fianco della quale. Su questo muro c’è una targa di marmo bianco che dice

APPIA ANTICA.

Passavano tutti di qua prima che Pio IX facesse costruire il famoso ponte di Ariccia che adesso è crollato. Procediamo lentamente sull’Appia Antica è molto stretta e piena di curve in salita. Dopo un chilometro la Carta dice Le Bandelle e un po’ più avanti dice Podere Campana.

(Luigi Malerba – “Salto mortale”)