L’esordio in prosa del grande poeta Valentino Zeichen, che ci ha recentemente lasciato, non abbandona la consueta e familiare via Flaminia. Uno spicchio di Roma che trova tra porta del Popolo e Valle Giulia i vertici del suo cono di luce. E di ombre. Ringraziamo autore ed editore (Fazi) per l’anticipazione da “La sumera”.
Sbucò da un vicolo cieco, asfaltato, accelerando sui
quarantacinque gradi della svolta per entrare furtivo
nella consolare via Flaminia. Aveva un leggero anticipo
sull’orologio del ministero della Marina Militare che camuffava
un radar, mentre le lancette stavano per speronare
l’unità numerica delle dodici. In quell’istante si
ebbe un’esplosione, un obice tuonò: era il cannone sul
colle del Gianicolo che spaccava il mezzogiorno.
Per non venire colpito dalle schegge, camminava rasente
il muro che recintava un’ingombrante concessionaria
di auto, sostituitasi a vecchi servizi igienici. Oltrepassò
la stimata Filarmonica senza che gli venisse in
mente un motivo leggero da fischiettare in scherno a
quella vetusta istituzione musicale. Detestava gli amici
della musica che, raccogliendosi davanti alla palazzina,
formavano un grumo chiaroscuro che rovinava come
una macchia informe la prospettiva della Flaminia.
Immaginava che i pezzi di repertorio del menù, misto
di classico, romantico e moderno, si sovrapponessero
come gli strati di un pasto pesante neutralizzandosi reciprocamente
e sottraendo spazio alla levitazione delle
emozioni.
Azzardò che un tempo sarebbe bastato ascoltare le
prime note dell’Eroica per correre ad arruolarsi nell’esercito
napoleonico liberatore d’Europa; adesso si
poteva assistere a decine di concerti senza nemmeno
patire uno stomachevole disagio da indigestione di stili.
Questi soci raffinati sostituivano la chiesa con l’auditorium,
erano assortiti come pasticcini: beghine e bigotti
doppiamente abbonati all’epidemia influenzale annua
arricchivano il programma musicale con ruttini interiori,
tossi convulse, cadute di monete, starnuti da effetto
di associazioni erotiche provocate dalla lascivia delle
melodie. Rumorosi peggio dei tarli facevano scricchiolare
senza sosta le sedie durante le esecuzioni, mettendo
a dura prova le nervature armoniche del legno.
E ancora: melliflui, ipersensibili, ritardatari, diffidenti del nuovo,
se prima non neutralizzato da rassicuranti istituzioni,
attuali entusiasti, ex ostili alla musica dodecafonica,
nemici tuttora della musica concreta.
Convenne con se stesso che in genere aborriamo le
novità poiché gli strumenti per misurare i giudizi sono
antiquati e quelli nuovi presto obsoleti, perché comprati
ratealmente.
Sorrise dell’inutilità di certi suoi pensieri, quando in
quelli prefabbricati dei filosofi si possono noleggiare
verità parziali, ma più soddisfacenti. Faceva freddo e
per riscaldarsi provò a rumoreggiare il mare di una canzonetta
estiva risalente a un decennio prima.
Giunto all’incrocio con viale delle Belle Arti, rallentò
il passo in attesa del verde al semaforo. Attraversò la
strada andandosi a posteggiare sul marciapiede che delimitava
un profondo spiazzo alberato, all’interno del
quale si delineavano incertamente piccole aiuole erbose
debordanti nei vialetti ghiaiosi.
Dal rilievo centrale che
avevano le palme, l’insieme sembrava pendere verso un
quadro esotico, staccato dalla parete e poggiato a terra,
alla mercé dei distratti calpestatori di paesaggi artistici.
Quest’isola di verde ingiallito s’incuneava tra la Flaminia
e viale Tiziano, che per un breve tratto le correvano
affiancati, spartendosi.
Comprando i giornali, quel suolo, già sottosuolo della
memoria, gli rammentò che al posto dell’edicola ora
spostata, tempo addietro stava una garitta per i controllori
di tram, residuato del periodo bellico.
Aveva un appuntamento? La memoria lo riportò al
passato. Da allora erano trascorsi molti giorni: di tanto
in tanto, senza motivo, passando per quel luogo aspettava
Lei, inutilmente, alcuni minuti.
In quello stesso posto dava appuntamento ad altre
donne e, nell’intervallo dei loro ritardi, come diversivo,
la ricordava; era una dedica e insieme il modo di uccidere
il tempo.
Staccò il piede destro dal marciapiede per attraversare
la strada, quando sfrecciò un’auto. Il piede sinistro restò
quasi incollato al terreno sollevando dei filamenti di
chewing gum che lo tennero ancora legato per qualche
attimo al suolo. Con uno scatto tentò di seminare il chewing
gum che lo tallonava.
In breve si districò dall’impaccio e proseguì con entusiasmo
superando la massiccia facciata di Villa Giulia,
che era abitata da un museo. Esitò per qualche istante,
forse vi si poteva fare un’incursione? L’arte degli etruschi
gli faceva venire i brividi, evocava troppo il sottosuolo, le
opere d’arte di quella civiltà avevano un’impronta invisibile
di buio che denotava una lunga sepoltura.
Si affrettò con passo di fuga.
Di lì a poco però Ivo entrava nella Galleria Nazionale
d’Arte Moderna. La stagione della caccia si era chiusa
da poco o era stata appena aperta? Al riguardo non
venivano fornite delucidazioni. Norme presunte e sconosciute,
comunque invisibili, scoraggiavano qualsiasi
avventura di desiderabile contravvenzione.
Valentino Zeichen è nato a Fiume ma vive a Roma. Dal 1974, anno della prima raccolta di poesie, ha pubblicato diversi libri fra cui “Ricreazione” (1979), “Tana per tutti” (1983), “Gibilterra” (1991), “Metafisica tascabile” (1997) e “Aforismi d’autunno” (2010). Un’antologia di tutte le poesie è apparsa negli Oscar Mondadori.