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Via Savoia, ore 11

Era il 15 gennaio. Come oggi. La via: via Savoia (nella foto di Mauro Petito). Le ore: le 11. Il resto è un film (di Giuseppe De Santis) e prima un’inchiesta (di Elio Petri) passati alla storia. Del cinema e dell’Italia post-bellica, prima.




Mi immagino un groviglio di scarpe, di cappelli, di borse grandi e piccole. Accessori all’ultima moda, o di “anteguerra”, appena comprati o prestati. Non importa perché i pezzi di calcinacci e la polvere li hanno resi una massa informe seppellita in un palazzo ferito, come se ci fosse ancora la guerra.
Di seconda guerra mondiale parliamo, ed è una ferita ancora aperta, come “aperto” sembra l’interno di questo palazzo senza più la sua scala interna.

È il 15 gennaio del 1951.

Le nuove generazioni stanno pagando le conseguenze della promessa ingannevole di una vittoria che non è mai arrivata. L’Italia la guerra l’ha perduta ma le donne italiane hanno vinto un paio di battaglie piuttosto importanti: hanno avuto accesso al voto e sono entrate in massa nel mondo del lavoro. Grazie ai posti ‘vacanti’ lasciati dagli uomini chiamati alle armi le donne finalmente hanno avuto la possibilità di sperimentarsi in notevoli professioni. Sono più numerose e forse anche più consapevoli di quelle che già nella Grande Guerra si erano trovate a lavorare soprattutto nelle fabbriche belliche.

Via Savoia è una via elegante del quartiere Salario.
Se la imbocco da viale Regina Margherita all’inizio cammino costeggiando la favolosa Villa Albani. Favolosa perché della sua bellezza mi hanno parlato ma non l’ho mai vista. Se la percorro tutta spunto sulla Via Salaria… nel suo tratto a ridosso di Piazza Fiume in un vortice di vetrine, di volti, di rumori e auto.

“Signorina giovane intelligente volenterosissima, attiva conoscenza dattilografia, miti pretese per primo impiego, cercasi. Presentarsi in via Savoia 31, interno 5, lunedì ore 10-11 e 16-17”.

Questo annuncio era stato letto sul Messaggero da circa 200 giovani donne domenica 14 gennaio 1951. L’indomani questo piccolo esercito marcia su questa stessa via che sto percorrendo. È gennaio, fa freddo persino a Roma. Il numero delle concorrenti è scioccante… il posto è uno solo. Ma ognuna, convinta di essere la ‘volenterosissima’ candidata giusta decide di rimanere e giocarsi la propria la carta. Si assiepano così, in circa 200 sulle scale del palazzo in attesa di essere chiamate a colloquio. Nascono simpatie, volano parole di invidia, si condivide il sogno di farcela. Sorrido pensando che sembra una scena così vista… in questi anni di precariato organizzato e a volte disperato l’ho vissuta da protagonista molte volte.

Diversamente dalle mie avventure questa ha però un epilogo tragico: la scala del palazzo crolla sotto il peso di questa speranzosa generazione. 77 ragazze finiscono al Policlinico e una, Anna Maria Baraldi, muore.
Addirittura le ragazze sono costrette a pagare una retta per i giorni di ricovero. Per la maggior parte di loro che versa in condizioni economiche di svantaggio è un dramma nel dramma.

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Tutto questo si vede nel meraviglioso film ‘Roma ore 11’ di Giuseppe De Santis. La pellicola girata appena un anno dopo ancora nel solco del Neorealismo vuole raccontare a voce alta il dramma della disoccupazione. Il film suscitò grandi polemiche perché andava a toccare temi importanti legati non solo al lavoro ma in generale alla condizione di miseria e subalternità della maggior parte delle persone nel periodo postbellico.

Senza fare un film ‘femminista’ De Santis racconta il punto di vista di queste donne che con coraggio osavano cercare un nuovo stile di vita che non fosse più nel segno della dipendenza dalle famiglie o dal marito.

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Per comprendere davvero il loro spirito non si può non leggere il libro tratto dall’inchiesta che un giovanissimo Elio Petri realizzò girando tutta la città alla ricerca di queste ragazze. L’inchiesta era servita per realizzare il film ma nel 1956 fu pubblicata restituendoci un ritratto delle donne italiane negli anni Cinquanta con le loro consapevolezze, le loro aspirazioni, le loro paure. Petri ha tracciato un racconto geografico (le ragazze sono sparse in tante zone di Roma), psicologico e soprattutto sociale. Ci restituito un’Italia ancora sospesa tra lo shock della guerra e il desiderio che è forza propulsiva verso il cambiamento e l’ammodernamento del paese. È una storia che nel film si intuisce con molta meno forza. È una storia che ci serve ricordare. Per capire chi siamo e decidere anche noi con forza come vogliamo cambiare oggi il nostro paese.

Da fare
Una pausa dolce da ‘Dolce’. Non solo per il dolce ma anche per l’arredamento.
Andare a leggere/studiare nella biblioteca Europea.
Andare a vedere un film al Goethe Institut.

Di mary de gregorio

Laureata in storia a Bologna con tesi sul femminismo è insegnante e ricercatrice indipendente ed esperta di studi di genere.