Viaggiare il viaggiabile. Questa intervista è comparsa sul blog di Rolling Pandas.
Secondo lei cosa significa veramente viaggiare?
Viaggiare significa perdere qualcosa per trovare qualcosa. Non ho giudizi su questo: chi per andare perde tutto lo fa perché ha scelto di eliminare quello che forse non gli serve più fa bene. Per questo motivo amo, in generale, i viaggi non dico scomodi ma “sobri”. Cercare tutte le stesse comodità che si hanno a casa vuol dire cancellare uno degli elementi principali del movimento che sta dietro al viaggio. Viaggiare leggero mi piace. Portarsi dietro cose che poi si dovranno lasciare per cambiarle con altre che si portano dietro, lavare i vestiti, essere meno pulito (tra virgolette).
Viaggiare per me significa, poi, accettare l’idea che non tutto è alla nostra portata. Non ce l’ho con i viaggi avventurosi in assoluto ma con la ricerca di superamento della natura che va in primo luogo rispettata. La storia delle storie rimane per me quella che racconta Jon Krakauer e che poi è diventato il film “Into the wild” più che le pagine di cronaca nera alpinistica. Saper stare nel selvaggio è uno degli insegnamenti del viaggio sostenibile che si diceva prima. Una cosa che si può fare anche in una metropoli, in definitiva. Perché è saper stare e basta. Vivere i luoghi assecondandone la magia e per me, appassionato di flanerie cittadina, questa magia la possiedono anche le strade, le piazze, le stazioni, le periferie.
Cosa ne pensa del turismo sostenibile?
Tutto il meglio che si possa pensare anche se mi fa sorridere che si debba sottolineare. Chi viaggia va a fare conoscenza di un luogo non a griffarlo con le sue bottiglie d’acqua vuote. Anche troppe foto non sono un buon servizio che si rende ai luoghi. Non voglio dire che la ricerca dello scatto perfetto sia la risposta ma non lo è neppure la successione infinita di inquadrature. In generale anche andare troppo per ristoranti non mi sembra un segno di sostenibilità. Amo i supermercati nelle città come le spiagge meno battute e le montagne meno salite. E non per snobismo. Perché – se sostenibile significa anche questo – viaggiare vuol dire cercare le proprie cose, quelle che stanno bene a noi, che ci valorizzano, come se si trattasse di un vestito al cui misura dobbiamo scoprirla senza un sarto se non interno.
Come sceglie le sue mete di solito?
Nel mio caso mio come scrittore autore di guide atipiche di viaggio – in realtà quella che si dovrebbe chiamare “narrativa di viaggio” – e mio come curatore del progetto perdersiaroma.it le mete devono accendermi un fuoco. La fascinazione arriva spesso dal paesaggio, dalla natura. Altre volte dalla letteratura stessa: tutto quello che è stato scritto e detto, un filo che poi mi piace ristendere, rileggendo, e provare ad allungare agganciando il mio di filo per continuare quel racconto. Le leggo e le annuso prima lasciando degli spazi vuoti per la sorpresa e per l’esperienza che non può che essere personale. Anche da viaggiatore seguo lo stesso disegno. Studio qualcosa e poi vado con le armi sensoriali e i sesti o settimi sensi di cui tutti siamo naturalmente dotati.
Qual è il suo sogno nel cassetto per quanto riguarda i viaggi?
Mi piacerebbe ripercorrere passo passo la storia del Buddha storico Shakyamuni, ritrovare tutte le tracce del suo passaggio regione per regione. La sua mi sembra una parabola perfetta: dalla vita materiale – tra l’altro anche abbastanza agiata da potersi sollevare apparentemente (ma sì solo apparentemente, ormai lo sappiamo tutti) da problemi più profondi e interiori – a quella spirituale e poi ritorno. I discorsi (o Sutra) in cui racconta, rimettendola in circolo, la sua sapienza con lo spirito di restituirla a tutti e a tutte le vite. Mi piacerebbe presto fare un lunghissimo viaggio a tappe in treno – non per forza la Transiberiana. Mi piacerebbe vedere i luoghi dei racconti della Kolyma di Salamov. E ho ancora tanti altri mi piacerebbe. Il Giappone è – con New York , Islanda e Argentina – il luogo in cui tornerei sempre.
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