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Vie di mare, vie di montagna – Città Giardino

Città Giardino, un quartiere che nasce per celebrare un concetto di città nella città dove il verde impera e la cura del dettaglio architettonico comanda.



Nel 2002 ho scritto un racconto che poi, riveduto e corretto, è finito nel mio libro “Perdersi a Roma. Guida insolita e sentimentale”. Si intitolava “Andare per mare, in città” ed era uscito nella gloriosa rivista-antologia “Maltese Narrazioni”. Un piccolo insieme di fogli – pensati e stampati in un piccolo paese dell’astigiano, Canelli – eppure così considerevole da aver meritato financo tesi di laurea e offerto alla letteratura autori importanti come Marco Drago, Matteo Galliazzo ed Ernesto Aloia.

il tipico villino di città giardino
il tipico villino di città giardino

Andare per mare voleva dire solcare quelle vie romane bagnate da nomi come Adriatico, Jonio e Tirreno. Le strade di grande scorrimento della mai adolescenza di motorini truccati, espansioni, marmittoni e, naturalmente, rumore. Viali delle fuga e del ritorno a corollario della via Nomentana che le precedeva o le seguiva separandole dal Centro Storico a cui ambivamo con l’ansia della maggiore età. Parlavo di Montesacro e rivelavo quell’infruttuoso andare di sedicenni a cui viaggi roboanti su due ruote, assisi su un sellino troppo stretto persino per uno, dava il brivido di navigazioni transoceaniche. Al fianco di quelle rotte magellane ci si aprivano di lato gli approdi montanari di via Cimone, via Etna, via Picco dei Tre Signori.




Quale geniale topografo, toponomasta (permettiamoci un neologismo) aveva battezzato montagne attorno a mari, isole strette in mezzo a viali fluviali? Eccoci, a sfiato delle nostre fughe sui vialoni talassici, a fumare a vampate le nostre prime sigarette nascoste, incastrati tra il verde di Città Giardino. Non visti e non intercettati da nessuno in quell’intrico stretto di vicoluzzi iper-residenziali. Un gruppetto di sedici-diciassettenni in agitazione di crescita. Accendevamo e spegnevamo marlboro light e mentine per profumare l’alito come diversivi offerti alle indagini dei nostri genitori. Infingimenti, che io ricordi, tutti andati a buon fine. E, a ripensarci oggi, non se ne sa il motivo. Quello che non sapevamo, quello che non sospettavamo neppure, era l’origine di quella bellezza declinata in ville dai portici magnetici. Vuote di persone. Vive di una cura a volte esagerata a volte trasandata con gusto. Non immaginavamo che quella ricchezza così rara per Roma (a parte forse i Parioli, con la loro dichiarazione di agio quasi onomatopeica), per quella Roma dove abitavamo nella sobrietà delle nostre case coi tinelli, fosse stata pensata al principio del ‘900.

insolera

Come spiega Italo Insolera in “Roma moderna” (Einaudi), ci trovavamo al centro di una delle due vie di dilatazione romana: “Come Monte Sacro servì da polo di attrazione per l’espansione a nord così la Garbatella polarizzò e facilitò l’espansione a sud”. Da allora i profili di quella espansione si sono risolutamente avviati verso il GRA e oltre esso. Per rimanere alla mia area adolescenziale verso Colle Salario e, oggi, Porta di Roma e alle propaggini del verde meraviglioso della Marcigliana. Anche noi avevamo conosciuto, a bordo di ciao, vespine e sì, quella rotta ma in un senso tutto agreste. La nostra linea d’ombra padroneggiava anche quelle distanze che oggi sono state impilate di mattoni. Ma erano imbarcamenti più rari. Era Montesacro il cabotaggio che preferivamo: piccoli porti, piccoli approdi tra fuga e ritorno, tra rimanere come si era e desiderare di essere maturi.

città giardino

Come leggo oggi (in “Città Giardino Aniene” di Alessandro Galassi e Biancamaria Rizzo –Minerva edizioni, un libro ricco di foto d’epoca bellissime che fa luce sulla Società Cooperativa Anonima che tenne in piedi l’impresa di costruzione di queste case per gli impiegati dello Stato) tutto quel decoro, in cui viaggiavamo o sostavamo pregni di nicotina e desideri, era iniziato precisamente nel 1909 – gli anni del sindaco Nathan e del piano regolatore di Sanjust di Teulada – anche se il progetto viene deliberato nel 1919. Eppure – come spiega sempre Insolera – quel pensiero di Città Giardino con i piani aveva poco a che vedere: “perché discendevano da una politica contraria al piano del 1909” tutta votata alla bellezza e a un verde pro capite che sballava le proporzioni statuite.

Il realizzatore di quel disegno era stato Gustavo Giovannoni, un architetto allora influente, che sceglieva il barocchetto per rispondere allo stile umbertino sino ad allora imperante nei palazzi che incontravamo lungo la Nomentana passandolo per sbarcare nel Medioevo e nella classicità del Centro in cui sfiatavamo come arrivati in un passato che significava per noi futuro. Il nostro futuro: la maturità degli acquisti nei negozi, quella degli uffici. Quello che saremmo stati, un giorno. In sogni non più così nebulizzati di astronavi e carri da pompieri infantili (le proiezioni dell’infanzia coincidono con i mezzi, la tecnica del trasporto, la disponibilità di oggetti semoventi).




Dicevamo: avvocati, commercialisti o giornalisti. Eravamo passati alla trepidazione dell’intelligencia. Le nostre fughe in quel dedalo di villini con giardino marcati dalla “fuga all’inglese” della tipologia “garden city” (il cui teorico fu Ebenezer Howard che così la battezzava: “nella quale tutti i vantaggi della vita cittadina più esuberante ed attiva e tutte le gioie e le bellezze della campagna si ritrovano in perfetta combinazione”) ha trovato in questa zona di Montesacro uno dei suoi esempi deliberati. Regolamentata in lotti e porzioni di verde definito per Piano edilizio, cosa diventata nel tempo sempre più rara, non solo per incuria maliziosa dei palazzinari e incapacità amministrativa quanto per l’ansia mal consigliera di principiare ogni azione dagli effetti prima che dalle cause. Un male che non merita un’ennesima enciclopedia al nero. Città Giardino rimane un esempio di pensiero-architettura. Snob? D’accordo, ma riuscito. Come riuscito è l’innesto di edilizia popolare su questo tessuto di ville.

Persino quando gli anni ’50 e ’60 consigliano a molti possessori di ville l’affare vendita per realizzazione di piccole palazzine di cui avrebbero tenuto appartamenti e in qualche caso negozi oltre o al posto di soldi, il profilo di questo quartiere non cambia. E noi lo celebravamo sotto la madonnina o i portici al lato della chiesa degli Angeli Custodi a piazza Sempione. Tornando ai villini, e ai loro bow-window così rari per la Roma che conoscevamo, ne ammiravamo la ricercatezza ma senza desiderio. Le case a cui ambivamo erano piuttosto di un verde più lontano o, al limite, quelle nuove costruzioni come se dovessimo seguire il nostro tempo più che tornare a un decoro lontano. E anche questa fu un’ansia che cambiò nel tempo. Nessuno di noi, che mi risulti, è andato a vivere in una quiete lontana. Piuttosto a Talenti, lì dove più o meno era nato. Una specie di pascolo diventato, negli anni Ottanta, il sogno residenziale della nuova generazione benestante nel portafogli, di destra in politica (con molta anti-politica e nostalgie), e con ambizioni di libera professione. Insomma anti-statalismo declinato in palazzine di cortina e case al mare e in montagna senza per questo assurgere al mito di Cortina o di Punta Ala, sogni troppo lontani persino da quel decoro.

L’infanzia dovrebbe esser misurata in false credenze e arcobaleni, l’adolescenza in sigarette e ambizioni. La mia adolescenza è durata almeno mille sigarette sfilate da pacchetti condivisi. Ero io che li conservavo perché Mauro non poteva fumare a casa. Neppure io, per la verità, ma i miei genitori erano meno sospettosi dei suoi così conservarle toccava a me che le nascondevo senza darmi troppa pena. Gli ultimi tiri, prima del ritorno a casa, avvenivano in una traversa di via Monte Bianco, davanti a una clinica privata. I pacchetti di sigarette sono la prima forma di collettivismo che ho conosciuto. Per quanto contingentato e regolato. Persino i mozziconi potevano essere custoditi spenti e maleodoranti, una forma di libertà barbona che dopo di allora sarebbe stata inammissibile. Quanto alle ambizioni poca roba: sognavamo sogni svegli. Volevamo ciò che potevamo avere.




Al limite aspiravamo a dirazzare ma più nei desideri che nelle azioni. E questo credo abbia fatto di noi – e forse anche della nostra intera generazione – un baluardo della conservazione e del mantenimento di uno status quo spesso erroneo. Di molti pentimenti attuali dobbiamo forse una tenue corresponsabilità a quelle vie di Città Giardino. Al loro colpevole inganno incantatorio abbiamo forse da imputare le tante mancate sfide all’impossibile o, almeno, al difficile. Forse dovrei a questo punto usare parole classiste e dire che queste mancate tenzoni hanno a che fare con l’ansia borghese della conservazione di cui eravamo pregni ma preferisco dire che, se ci fu colpa, se c’è stato dolore, oggi, per quello, mi sento di assolvere la bellezza un po’ sonnacchiosa di questa parte di Roma.

Da fare
Un piatto di pasta all’Hostaria Menenio Agrippa – via Nomentana, 631 – tel. 06 86899352
Una bottiglia di vino da Pallotti – piazza Menenio Agrippa, 9 – tel. 06 86899372
Un aperitivo da Mezzo Litro – Via Nomentana, 468 – tel. 068277691

Di roberto carvelli

Founder e direttore di "Perdersi a Roma" collabora con Il Messaggero, il Venerdì e Nuova Ecologia. Ha pubblicato libri di prose, poesie e narrativa di viaggio tra cui "Letti" (Voland), "AmoRomaPerché" (Electa-Mondadori), "La gioia del vagare senza meta" (Ediciclo), "Fùcino" (Il Sirente), "Il mondo nuovo" (Mimesis), "Andare per Saline" (Il Mulino) e "I segni sull'acqua" (D editore).