Mentre nel 2016 si annuncia in Italia un crollo della produzione di miele del 70% (460 tonnellate contro le 935 dell’anno scorso, un record negativo che non succedeva da 35 anni) Barbara Bonomi Romagnoli ha composto un prezioso quanto informato quanto accorato quanto universale (quanto tutto) libro sulle api.
Sulle api e non sull’apicultura. Anche se si parla delle une e dell’altra (al femminile, come piace professare a Barbara, amante – a ragione – del “genere” o meglio in guardia sulla offesa dello stesso).
S’intitola “Bee Happy. Storie di alveari, mieli e apiculture” ed esce per Derive Approdi.
Il libro ha la sua biologica inclassificabilità. Dove inizia l’inchiesta? Dove diventa saggio scientifico? Quando non cede spazio alla poesia o alla prosa? Le questioni sono tante.
Ma oltre a tutto questo sì, come scricono nel presentarlo: “Veniamo dalla terra, torniamo alla terra, in mezzo c’è un giardino”. E questò è un libro sul giardino.
Un eden abbastanza a portata di mano e laico che invitiamo a leggere. Perché del giardino si parla poco, sempre più della terra, a ragione o a torto. Ve ne anticipiamo un brano ringraziando autrice ed editore.
All’inizio mi sentivo divenuta di colpo presbite, perché alzavo dinanzi ai miei occhi il favo ed era tutta una massa indistinta, maggiormente se ero posizionata controluce. Per di più mi muovevo goffa con la tenuta da astronauta in terra, avendo una nomèa non certo di ballerina col tutù ma piuttosto di elefantina dentro un negozio di cristalli. Ho dovuto perciò imparare a muovermi con discrezione senza far caso al sudore, che dopo diverse ore sotto il sole è come fare una sauna senza il relax di un hammam.
Poi, pian piano, l’occhio mette a fuoco e distingue sempre di più le operaie dai fuchi, la regina da tutte loro. Riconosco le api spazzine alle prese con la pulizia delle cellette – sono un po’ maniache queste amiche api, le guardo sorridendo pensando alle pattine di nonna Olga –, qua e là ci sono le nutrici che danno da mangiare, le esploratrici di ritorno e le bottinatrici esperte in cerca di fiori colorati, ma anche le «guardiane» e le «becchine», che si occupano di chi è passata ad altra vita, e ancora le muratrici e le termoregolatrici, ali che fungono da condizionatori in tutte le stagioni.
Lo stupore sta nel fatto che tutte svolgono, a seconda dell’età, diversi compiti a rotazione nell’arco della propria vita, probabilmente non si annoiano mai né, parafrasando i proverbi infernali di William Blake, si rattristano facilmente, così indaffarate sempre in qualche faccenda.
Ogni volta che lo racconto a una classe di bimbe e bimbi delle elementari mi guardano con perplessità: a loro son stati insegnati ruoli chiari, la mamma pulisce e il papà lavora. Nell’alveare c’è condivisione organizzata e redistribuita, con ruoli di genere certamente definiti ma decisamente più equi, soprattutto
senza nessuna autorità che dall’alto detta legge per tutte: le regole, o meglio le decisioni, sono il frutto del flusso di informazioni partecipate che scorre all’interno dell’alveare fra le diverse individue.
La comunità di api è in grado di assumere decisioni (come ad esempio cambiare la regina) che da sole le singole api non sarebbero in grado di prendere, anche se ognuna si muove autonomamente ed è capace di eseguire le proprie mansioni nel posto esatto all’ora giusta. È una società dove la decentralizzazione produce un miglioramento di vita per tutte ed è determinato dal continuo mantenimento di un equilibrio complesso, in cui l’insieme ha proprietà diverse dalla somma delle parti ed è l’insieme a determinare il comportamento dei suoi componenti, qualunque essi siano.
I fuchi mi fanno tenerezza, così paciosi e morbidi, mentre mi esalto nel vedere le operaie che tornano a casa con braccialetti di polline arancione attorno alle zampe, le adoro – rendendomi conto che è una gioia puramente irrazionale – e potrei stare ore a guardarle. Così come mi infervoro nel veder uscire le antenne da una celletta chiusa, segno di una nascita in corso.
Non è solo il senso di una vita nuova che sboccia ma anche la sensazione di osservare un universo animato da così tanta bellezza. Sono entusiasta di indole, le api mi stupiscono sempre (anche perché come dicono diversi colleghi, ogni giorno arrivi a sera con la consapevolezza di averci capito poco o nulla) e più prendo confidenza più le sento vicine nella distanza siderale che, di fatto, distingue la nostra relazione.
Eppure, fra femmine un po’ ci si riconosce e a volte sembra esserci un feeling particolare dovuto al mio ciclo mestruale: quando lavoro in apiario nei giorni in cui gli umani tendenzialmente mi irritano, ho notato che le api tendono a venirmi addosso, non in maniera aggressiva ma investigativa, quasi a voler tastare il terreno.
A richiamarle è l’odore dei miei ormoni. La prima volta che l’ho detto a mio padre mi ha guardato ridendo: «La solita matta…», poi col tempo mi ha dato un poco di ragione, del resto era l’unica esperienza che come maschio non aveva potuto fare in quarant’anni di apicoltura.
A forza di fissare il mucchio di api che tiro su insieme al favo, con la pratica capisco che serve il colpo d’occhio per intercettare sua maestà, difficilmente la vedrò nei telaini più esterni dove viene immagazzinato il miele e il polline per l’inverno, più facilmente è nei favi centrali dove nella bella stagione arriva a deporre circa duemila uova al giorno: la covata, come la chiamiamo in gergo, è composta da un uovo per ogni celletta esagonale.
Nel corso dei giorni successivi quel puntino quasi trasparente diviene larva, pupa e infine nasce la nuova ape: la femmina operaia dall’uovo fecondato porterà con sé tutto il patrimonio genetico della madre e del padre; il maschio, detto fuco, dall’uovo non fecondato avrà invece solo il patrimonio genetico della madre.