“Vite minuscole” di Pierre Michon (Adelphi), nessuna minuzia esistenziale, piuttosto vite a piede di nota.
“Vite minuscole” arriva da noi, grazie ad Adelphi solo adesso. In realtà è uscito in Francia già nel 1984 con un clamore destato anche dalla totale novità da outsider dell’autore.
Si tratta di un libro alla Plutarco, alla Svetonio – per essere più attuali alla Pontiggia. Uno di quei libri in cui il minuto diventa quasi ingombrante per la focalizzazione: appunto annotata come ben scrive nella breve ma illuminante postfazione “‘Vite minuscole’, o la superfluità delle note al piede” Leopoldo Carra. Le note a margine non servono, il testo lo è – senza per questo voler apparire inessenziale.
I periodi di Michon sono lunghi, sontuosi, ipotattici. Aggettivati e pensosi, interrogano il tempo e i gesti con pacata serenità e smisurata attenzione. Quella di chi sa che ha a che fare con una materia viva e non dunque con un racconto in corpore vili. Un racconto che è in parte racconto di sé, della propria vicenda, delle proprie origini famigliari contadine in parte iperletteraria rassegna di vite altre.
Una linea che mescola fantastico borgesiano, grande narrativa intima francese e poesia senza perdere il senso della “classicità”. Quella che non scrive per l’oggi ma per il sempre. Pur non perdendo il rimando intenso a sé – e non è un caso che Michon abbia dichiarato che scrivere “Vite minuscole” gli abbia salvato la vita.
La sua e che tramite la sua abbia salvato quella che ha erediato dalle vicende famigliari, generazionali (nel libro ci sono anche degli antenati) che inanellano perdenti, derelitti, sconfitti. I salvati di Michon si addensano nelle righe, grazie al suo lavorio alchemico che ne trascende la dimenticanza e il difetto.
Con contigua coerenza con la sontuosità visiva, la scrittura ha dei fermi improvvisi e di nuovo si abbandona come se nulla fosse alla evanescenza delle visioni:
“Passavano rondini. Mentre ero preso in quel vortice di ebbrezza, il mio sguardo si fermò: dal giardino accanto, così vicina che tendendo la mano avrei potuto toccarla, gli occhi fissi sui miei, attenta e decisa ma in balìa di un respiro, ferma ai confini dell’ombra fra le violacciocche e i piselli odorosi, eppure lontanissima da Chatelus, lei mi osservava. Sì, era lei, ‘la bambina morta, dietro i rosai'”.
I luoghi di “Vite minuscole” – che la casa editrice italiana presenta con un per nulla presuntuoso “Uno dei libri più importanti della letteratura francese di oggi” – sono a volte favolosi o fantastici. Colmi di echi: “come un tempio, una caserma di lancieri o di centauri; non mi avrebbe stupito che il Pantheon o il Partenone, di cui conoscevo soltanto i nomi e che confondevo tra loro, gli somigliassero.”
Gli incipit sono, invece, quasi sempre esatti e poco allusivi: “Nell’autunno del 1972 Marianne mi lasciò.”
La stagionalità si mischia al dire dei giorni, alle umane vicende come prova che il narratore non perde la dimensione universale per inseguire i fatti: “Tornai un pomeriggio di un’altra estate, probabilmente l’anno dopo; anche stavolta c’era bel tempo”.
La ricchezza, come detto, aleggia su tutto:
“il mito languidamente effuso dalla sua bocca sostituiva la gemma degli anelli e purifcava l’acqua delle pietre preziose, prodigava tutta la gioielleria verbale che scintilla negli strani nomi propri degli avi, nell’ennesima variante di una storia già nota, negli oscuri motivi dei matrimoni, delle morti”.
Le descrizioni e ancor più i ritratti ne sono la prova più inconfutabile:
“Clara, mia nonna, donna pallida e filiforme con le guance smunte, immagine della morte inquieta, rassegnata ma ardente, singolare mescolanza di espressioni vivaci, vitali, e della maschera funerea sul- la quale si riverberavano; le sue mani lunghe e gracili contratte sulle ginocchia ossute; le labbra, il cui profilo pur assottigliato dagli anni era ancora perfettamente definito, si distendevano, quando mi guardava, in un sorriso di ineffabile e nostalgica vaghezza, ma al tempo stesso intenso, seducente, da ragazzina”.
Al punto da manifestare un superamento del dato oggettivo. Perciò, andare in collegio sarà “soprattutto, rinunciare a vedere mia madre ogni giorno, a errare con lei nella tenerezza dei dintorni del linguaggio”.
Senza temere l’ignoto, l’indicibile, il segreto, l’iniziatico:
“I dottori si dispersero come un volo di passeri entrato per errore o stoltezza sotto le volte, e messo in fuga dalla monodia; umile cantore da navata laterale, io non osavo levare lo sguardo sul maestro di cappella inflessibile, misconoscente e misconosciuto, il cui canto era reso più puro dall’ignoranza dei neumi”.
Un indicibile che Michon continuamente insegue, nel ragionamento e nelle sue premonizioni o illazioni: “Può darsi che chi è capace di scrivere la parola ‘morte’ conosca, della propria morte, perfino la data”.
Salvo concludere con il dato del racconto, con la presenza, con l’essenza:
“Ma ero vivo; e poiché la mia vita non era un verbario, poiché ancora non afferravo la lettera di cui avrei voluto essere costituito da capo a piedi”.
A un certo punto, verso la fine del libro, un flashback infantile che suona come una dichiarazione di poetica o un vulnus: “Imparavo che il cielo e i libri fanno male e seducono” e aggiunge che ai tempi l’estasi non lo aveva ancora “guastato”. Come non ha guastato la sua prosa per un miracolo dell’equilibrio.