Vite parallele: Sartre e Camus di Filippo La Porta tratto dall’ultimo numero della rivista “l’immaginazione” (Manni).
Vite parallele: Sartre e Camus
di Filippo La Porta
Sartre? Chi era costui? Umanista o antiumanista? E Camus? Il suo “pensiero meridiano” è diventato uno slogan decorativo. Eppure bisognerebbe leggerli (o rileggerli).
Cominciamo da Sartre. Il mio giudizio su di lui e sulla sua opera ha attraversato ben tre fasi.
Anzitutto: la mia generazione ha amato Sartre, che elogiava la violenza dell’oppresso di Fanon e il ribellarsi è giusto, che vendeva per strada il giornale maoista “Cause du peuple”, fuori legge.
Nei primi anni Settanta a Roma era previsto un appuntamento del “movimento” in un cinema – affollatissimo – sulla Tuscolana, con Sofri e Sartre.
Eravamo tutti emozionati, ma il Filosofo non arrivò mai… Lessi Questioni di metodo (prima parte della Critica della ragione dialettica), e mi entusiasmò la sintesi (abbastanza improbabile) Marx-Kierkegaard. Poi La nausea, dove la vicenda di Roquentin viene commentata dal brano Some of these days (ah, solo il jazz avrebbe potuto salvare Heidegger!). Tentai anche la lettura dell’Essere e il nulla, impervio ma eroico per lo sforzo speculativo, tuttavia ripiegai sul libretto divulgativo L’esistenzialismo è un umanismo, che suggerisco per i licei. Mi piacque il rifiuto del Nobel e, come ogni ventenne, ero convinto che l’inferno sono gli altri… In seguito ho molto ridimensionato Sartre, specie la sua teoria dell’engagement, falsa e strumentale, e anche l’apologia dell’assassinio nella celebre prefazione simpatetica a Fanon.
Diffidavo del Sartre ipnotizzato dalla Politica, a cui tutto doveva essere subordinato (anche la Verità). Prima di diventare maoista
era stato filosovietico e stalinista; ha abbracciato ogni cattiva causa, arrivando a elogiare l’attentato terroristico dei palestinesi alle Olimpiadi di Monaco (lui che peraltro ha sempre difeso, controcorrente, Israele).
Eppure dopo la sua morte ho provato a riprenderlo in mano, e ho capito che la sue virtù coincidono con i suoi difetti (così un po’ per tutti, ma per lui la cosa è ancor più vera). Tutto nella sua opera viene da lui stesso contraddetto, perfino il famigerato engagement: in “Che cos’è la letteratura” (“Les temps modernes”, 1947) insiste sulla letteratura come autorivelazione, e dunque su un impegno che riguarda
soprattutto la scrittura (che è già un modo di agire), e non astratti doveri sociali.
È vero, disprezzava Solgenitsin, però andò all’Eliseo con Aron a difendere la causa dei Boat People.
Dalla sua critica del Soggetto come struttura repressiva discendono Foucault e Deleuze però poi lui ritiene di dover difendere il soggetto, la sua libertà autocosciente, contro ogni antiumanismo (e critica Ponge, la fusione dell’uomo con gli oggetti). Il suo pensiero è inafferrabile e vitalissimo, sempre in movimento, stretto fra elogio dell’individuo libero, dell’idiota di famiglia, e attrazione per la comunità, per il gruppo in fusione.
Quello che rimane è una polemica costante – per noi oggi preziosa – contro ogni essenza, radice, mito della purezza, religione del sangue,
radicamento in un luogo: no, l’esistenza precede l’essenza!
Di Camus sapevo a memoria interi capoversi del Mito di Sisifo. Divorai a 18 anni Lo straniero (senza capirci niente: ogni volta che lo rileggo ha un significato diverso) e La peste, poi i Taccuini, e infine L’uomo in rivolta, forse il
libro “politico” più bello che lessi allora (una storia della filosofia personalissima, tendenziosa), accanto al più ostico L’uomo a una dimensione di Marcuse.
Si rivolgeva direttamente a me, come ad ogni lettore. Amava giocare al calcio, proprio come Pasolini. Però, inguaribile individualista, giocava nel ruolo di portiere.
Solitario, tra i pali, ma anche sempre insieme agli altri, schierato con una comunità. Mi insegnò che il rifiuto dell’esistente ha senso se nasce non tanto da una utopia futura quanto da una esperienza vissuta di felicità. Camus è un autore che gli adolescenti di ogni tempo percepiscono come intimamente fraterno, per la sua disarmata purezza e per il suo oltranzismo morale, poco refrattario all’ironia. La sua è rivolta che subito trova dentro di sé la misura (concetto-chiave, di derivazione greca), e che dunque da nichilista (“la vertigine della distruzione” di Sade e delle avanguardie) diventa creativa, e da violenta non-violenta. Certo, il suo dire di sì alla vita, e alla natura, può essere pericoloso (in Mersault è dire di sì al delitto).
La natura contiene il bene e il male. Ma era abbastanza pascaliano per nutrire dubbi su qualsiasi riconciliazione definitiva con il mondo.
Per lui l’assurdo era un punto di partenza non di arrivo. Amico fraterno di Sartre. Poi la rottura traumatica. Dopo la sua morte Sartre però volle elogiare “il suo umanismo testardo, rigoroso e puro, austero e sensuale”.